VENEZIA 71 – Hungry Hearts, di Saverio Costanzo (Concorso)


Non commedia romantica ma horror "personale". Un oggetto prismatico strano, lunatico, irritante, che nella seconda parte rischia più volte di ingolfarsi ma che segue pervicacemente un’atmosfera cromatica e mentale tutta sua. Un (eyes) wide shut immerso nella ripetizione ossessiva di prigioni fisiche e spaziali che implicitamente racconta l'isolamento poetico del suo autore

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Due attori protagonisti, lingua inglese, budget ridotto al minimo e ambientazione newyorkese quasi esclusivamente in interni. Saverio Costanzo riparte da qui, a quattro anni di distanza dal sottovalutato La solitudine dei numeri primi. Torna dietro la macchina da presa per raccontare una storia d'amore abortita tra due giovani, un americano e un'italiana, tratta dal romanzo Il bambino indaco di Marco Franzoso. Sposta il suo cinema oltreoceano affidandosi a una coppia d'attori inedita quanto credibilissima come Alba Rohrwacher – che con Costanzo sfodera le sue prove migliori – e l'emergente Adam Driver (Tracks, la serie tv Girls), ma non cambia tematiche e territori, continuando a riflettere su elementi ricorrenti nella sua filmografia come il dolore dell'infanzia, l'impossibilità di trovare un punto di incontro sentimentale, il maleficio come presagio ineluttabile. Forse si chiude ancora una volta in una gabbia tutta sua, respingente ma anche personale, inevitabilmente Private appunto. Qui dopo un prologo comico sorprendentemente divertente ma già emblematico sulle dinamiche formali e psicologiche della storia – i due protagonisti intrappolati in un bagno strettissimo che non riescono a trovare da soli il modo di uscire – il regista italiano sposa le atmosfere cupe di un incubo polanskiano alla Rosemary’s Baby. La commedia della coppia di sposi che festeggia sulle note di What a feeling e su quelle nostrane di Tu si na cosa grande di Modugno marcisce presto sotto il peso di una gravidanza che ha il sapore malato di grandangoli asfissianti. Il bambino nasce ma con il passare del tempo sembra crescere poco e nella coppia si scatena un conflitto su come nutrirlo, curarlo, preservarlo dalle contaminazioni ambientali del mondo. Una questione di come gestire il corpo (del cinema) ancora una volta.

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Costanzo è l’unico regista italiano contemporaneo – assieme ad Asia Argento, ancor più sfumata e moderna – a confezionare horror sotto forma di altro, senza versare una goccia di sangue. Hungry Hearts è un oggetto prismatico strano, lunatico, irritante, che nella seconda parte rischia più volte di ingolfarsi ma che segue pervicacemente un’atmosfera cromatica e mentale tutta sua. Per Costanzo si tratta di trovare il giusto antidoto per sopravvivere al mondo e alla palude omologante del cinema italiano contemporaneo. L’impasse è sempre dietro l’angolo nelle sue opere, perché prodotta da un senso di isolamento evidentissimo. Implicitamente nel raccontare l’inevitabile fallimento di questa famiglia vegetariana che Jude e Mina vorrebbero costruire nel cuore di New York City Costanzo dice molto di sé.  Il fascino e il limite del suo cinema continua a essere tutta nella dialettica poetica di un universo aperto/chiuso. Un (eyes) wide shut immerso nella ripetizione ossessiva di prigioni fisiche e spaziali che a tratti trova nella memoria culturale della canzone e nella fluidità di un campo lungo tra un padre e un figlio i punti di fuga affettivi necessari per un’altra vita.

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