VENEZIA 71 – One on One, di Kim Ki-duk (Giornate degli autori)

one on one

L'incanto e la poesia del cinema di Kim segnano una brusca battuta di arresto, a causa di una narrazione stanca ed esageratamente subordinata al didascalismo delle parole. One on One non aggiunge nulla a quanto già detto dal regista, a partire soprattutto dal suo Leone d'oro Pietà, e tutto il discorso sulla violenza si perde all'interno di una pellicola stanca e mai veramente incisiva.

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one on oneKim Ki-duk approda al Lido per il terzo anno consecutivo, questa volta aprendo la sezione Giornate degli Autori. L’autore coreano si presenta nuovamente con una storia intrisa di violenza e vendetta, in linea con la nuova fase intrapresa dal suo cinema da Pietà in poi: One on One è la storia di un gruppo di comuni cittadini che fondano segretamente un nucleo di combattenti, con lo scopo di rapire, torturare e estorcere una confessione ad alcuni individui colpevoli dell’omicidio di una bambina, alcuni mesi prima. Proprio come nel film Leone d’oro nel 2012, anche qui il racconto viene svelato un poco alla volta, lasciando lo spettatore all’ignaro delle reali motivazioni dei personaggi; ma le analogie non si fermano qui, anzi. L’intento del regista sembra appunto quello di proseguire lo stesso discorso sulla crudeltà della società coreana, attraverso la rappresentazione di un mondo plumbeo dove la speranza sembra possibile unicamente attraverso il passaggio obbligato del sangue e della violenza. 

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Questa volta però l’incanto e la poesia del cinema di Kim segnano una brusca frenata d’arresto, e non solamente in virtù del fatto che, ad essere onesti, One on One non aggiunge nulla a quanto già detto dallo stesso Pietà; a non convincere è la struttura stessa del racconto, subordinato alle logiche della rivelazione finale in maniera molto più preponderante che in passato. I dialoghi si fanno sempre più didascalici e moralisti, e con essi la pellicola tutta: non c’è più quel dolore e quella meraviglia dei suoi tempi migliori, in cui era l’immagine a raccontare il film e non le parole. Parole strabordanti e colme di un significato forzatamente politico, che rischiano addirittura di far cadere l’insieme nella trappola devastante del film a tesi. I continui riferimenti alla crisi economica e alla difficile situazione sociale in Corea, poi, sono solamente degli imput che non si trasformano mai in riflessione vera e propria, abbandonando il film in quel limbo di superficialità che in parte era possibile intravedere già dagli ultimi lavori. Tutta la riflessione di Kim sulla violenza e sul suo inarrestabile dilagare all’interno delle nostre vite si perde così, a causa soprattutto di una narrazione stanca e ripetitiva, colma di inutili digressioni e diluita esageratamente per tutto il corso della sua durata.

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