#Venezia 73 – Dawson City: Frozen Time, di Bill Morrison

Si avverte tutto l’amore del regista per il mezzo cinema, e la sua più che evidente difficoltà nello staccarsi (anche fisicamente) dalle pellicole che (ci) raccontano la vita. In Orizzonti

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Raccontare un mondo, una città e i suoi abitanti attraverso il cinema. Nulla di nuovo, certo, ma l’operazione di Bill Morrison è ardita e lontana dagli schemi più convenzionali: Dawson City: Frozen Time è la storia di Dawson, città nata dal nulla durante la celebre corsa all’oro del Klondike, e rapidamente trasformatasi in un centro ricco e prosperoso grazie al massiccio afflusso di cercatori di fortuna arrivati lì da ogni parte degli Stati Uniti. Morrison ne racconta l’origine e gli sviluppi, ricostruendone l’ascesa e l’inevitabile declino dovuto allo spostamento delle risorse e dei capitali. Ma nel mezzo accadde qualcosa di diverso: a Dawson arrivò il cinema.

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Tutto comincia negli anni Settanta, quando durante gli scavi per la costruzione di un edificio vennero ritrovati i resti di numerose pellicole abbandonate; pellicole in nitrato d’argento, altamente infiammabili, quindi decisamente antiche e preziose. Da questo ritrovamento il regista procede a ritroso nella Storia, utilizzando il materiale fotografico e cinematografico di repertorio per mettere in scena la storia della diffusione dei film muti a Dawson, nel periodo che va dagli ultimi anni del diciannovesimo secolo fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Senza la voce off, ma solamente con un continuo commento musicale: un grandissimo lavoro di ricerca e di montaggio per ricostruire quali e quanti film dell’epoca del muto vennero proiettati nei tre cinema del luogo, tutti e tre adeguatamente mostrati grazie al materiale d’archivio.

Ma non finisce qui: Dawson City: Frozen Time parla anche e soprattutto di

dawson_city3persone, di nomi e di volti, e del ruolo che essi rivestirono nella diffusione della Settima Arte in quel luogo difficilissimo da raggiungere e troppo presto abbandonato nel dimenticatoio, una volta conclusasi la corsa all’oro. Morrison racconta le fortune e le disgrazie, i numerosi incendi causati dall’altissima infiammabilità delle pellicole, i ritrovamenti, il ruolo ricoperto dalle banche nella custodia dei materiali; e ancora, lo sport, i bordelli, le biblioteche, aumentando a dismisura il raggio d’azione della propria indagine e finendo col perdere il baricentro del discorso. Ma non è necessariamente un difetto: si avverte tutto l’amore del regista per il mezzo cinema, e la sua più che evidente difficoltà nello staccarsi (anche fisicamente) dalle pellicole che (ci) raccontano la vita. Il risultato è eccessivo, talvolta ripetitivo e certamente privo di quel dono della sintesi che in alcuni momenti avrebbe giovato al suo film; ma è anche incredibilmente vivo, sentito, prezioso.

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