#Venezia73 – Geumul (The net), di Kim Ki Duk

Kim Ki Duk consegna alla Mostra del Cinema Geumul che conferma la piega della sua nuova produzione artistica che prevede un cinema immediato ed efficace.

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Chi si ricorda di Valdrada una delle città invisibili nate dalla immaginazione razionale di Italo Calvino ne potrà adattare il senso del racconto a Geumul ultimo film di Kim Ki Duk.
Le ultime prove del regista coreano hanno confermato l’imprevedibilità delle sterzate che egli impone al suo cinema. Soprattutto, di volta in volta, gli ultimi film sembrano nascere dall’esigenza di stringere il proprio obiettivo su delle storie che pur perdendo quel margine di astrazione di cui era denso il suo primo cinema, hanno un respiro più strettamente legato alla contingenza dei fatti, alla immediatezza di una concezione umanistica. In questo detour autoriale è riconoscibile un’altra imprevedibilità del cinema di Ki Duk che per questa ragione resta un autore sempre difficilmente classificabile.
Anche quest’ultimo film, come già era accaduto con Stop si avvale di un impianto assai The netscarno così come scarna è la storia. Un pescatore della Corea del Nord che abita al confine con la Corea del Sud a causa di un guasto al motore finisce in Corea del Sud. Qui viene creduto una spia e sottoposto ad interminabili ed estenuanti interrogatori, nonostante egli dimostri di non essere un agente segreto. Finalmente arriva il giorno della liberazione e al suo ritorno in patria verrà creduto una spia mandata dal Sud. Verrà sottoposto ad interminabili ed estenuanti interrogatori e gli verrà impedito di tornare a pescare. Ma il suo bisogno di sfamare la famiglia sarà più forte dell’ordine dello Stato.
Un cinema semplice e non semplificato, immediato ed efficace al quale non servono, proprio perché sarebbero fuori contesto, le rarefazioni alle quali il cinema di Ki Duk ci aveva abituato. Un film che si materializza attorno ad una volontà di essere immediatamente compreso e ad ogni latitudine. Era l’intento che sembrava già manifestarsi in Stop, storia giapponese, ma di respiro globale, che ritroviamo anche in questo film che pur raccontando una storia strettamente coreana, innesca quell’effetto di riconoscimento universale che prescinde da ogni contingenza territoriale e politica.
La sua riflessione parte indubbiamente dalla divisione artificiosa tra le due nazioni che però risultano unite per lingua e tradizioni. I personaggi, nonostante siano politicamente stranieri, l’uno con l’altro, condividono le radici culturali. Da qui le affinità calviniane di

The net, Kim Ki Dukcui si diceva, in questo riflettersi, rispecchiarsi delle due nazioni separate da un confine immaginario. Un rispecchiarsi nello sviluppo simmetrico della vicenda del povero pescatore maltrattato per ragioni uguali e differenti al di là di ogni confine. Kim Ki Duk con questo suo cinema didattico, così difficile da classificare, come è difficile classificare i testi scolastici, resta sempre lucido nelle analisi e nella essenzialità del racconto. La rete impigliata nel motore della barca ne ingripperà i meccanismi, ma si avverte il senso del restare intrappolato per chi la sventura di avere a che fare con l’ideologia e con una cecità assoluta del potere.
Il film è affidato per gran parte al suo protagonista il giovane Ryoo Seung-bum che si destreggia con credibilità tra le strette maglie di un potere invasivo e mai cristallino, anche quando ritiene e sostiene di applicare la legge. Un cinema che forse farà rimpiangere il Kim Ki Duk che avevamo conosciuto all’inizio del millennio con L’isola, ma che suscita lo stesso interesse, filtrato da altre e diverse sensibilità e nei confronti del quale nutriamo sempre la curiosità di conoscere che piega prenderà la sua vicenda artistica, così mutabile e sempre così imprevedibile.

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