#Venezia 73 – Kékszakállú, di Gastón Solnicki

In Orizzonti, puro cinema di maniera, inerte e calcolato, che in alcuni momenti sembra quasi compiacersi della sua natura criptica e ostile. Solnicki traspone l’opera lirica di Bartók al presente

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Ne Il castello di Barbablù il compositore ungherese Béla Bartók rileggeva il racconto popolare reso celebre da Charles Perrault riducendo a due il numero dei personaggi (il protagonista e la nuova moglie Judith) e suggerendo una chiave di lettura psicanalitica. Kékszakállú di Gastón Solnicki parte dall’opera lirica di Bartók cercando di muoversi entro le medesime coordinate nel tentativo di trasfigurare la vicenda in un contesto contemporaneo, mantenendo il concetto di casa come trappola ma costruendo personaggi completamente differenti dall’originale.

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Libero da qualsiasi schema narrativo, il film mette in scena un gruppo di adolescenti che durante un periodo di vacanza si trasferiscono in una villa in riva al mare, seguendo le loro attività quotidiane e lavorative e cercando di raccontare (almeno in parte) il loro complicato rapporto con il mondo degli adulti. Il contesto geografico è quello di una Buenos Aires odierna, fredda e inospitale, ancora piegata dalle difficili condizioni economiche che impediscono alle giovani protagoniste di raggiungere una qualsiasi forma di indipendenza.

La noia, intesa come inerzia e malessere esistenziale, è l’unico motore delle loro

2vite, costringendole a ripetere anche i gesti più banali in maniera circolare e compulsiva, all’interno di un’abitazione che, appunto come il castello di Barbablù, tradisce la propria apparenza di luogo idilliaco per nascondere in realtà una dimensione infernale e priva di scampo. Nonostante la brevissima durata (appena 72 minuti), Kékszakállú non riesce mai a mostrarsi compiutamente come una rielaborazione matura e consapevole, schiacciato da un approccio esasperatamente intellettuale che alza un vero e proprio muro davanti allo spettatore. Un esercizio di stile privo di idee, che Solnicki mette in scena senza troppa personalità: puro cinema di maniera, inerte e calcolato, che in alcuni momenti sembra quasi compiacersi della sua natura criptica e ostile. Ma il messaggio che trapela (sempre che sia ancora il caso di parlare di “messaggi”) rimane ben occultato dietro le intenzioni iniziali.

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