#Venezia72 – Abluka (Frenzy), di Emin Alper

In concorso il secondo film di Emin Alper che racconta la paranoia politica e la violenza della Turchia contemporanea nell’alienazione di due fratelli

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Camionette della polizia, posti di blocco, rastrellamenti notturni, spie, cellule di terroristi che si moltiplicano invisibili nel vicinato: sembrerebbe il panorama bellico di un Paese del Terzo Mondo dilaniato dalla guerra civile.  È invece la Turchia. Europa. Zona di confine tra Occidente e Medio oriente. Nazione fino a qualche anno fa ricca e in via d’espansione e oggi terra di violenza, terrorismo, follia. Ed è proprio follia il titolo programmatico di questo ruvido, ossessivo ma potente film di Emin Alper, già autore dell’interessante Beyond the Hill. Siamo in una periferia qualsiasi di Istanbul. Kaled è in libertà condizionata dopo aver scontato venti anni di carcere. Non sappiamo nulla del suo crimine, conosciamo però il lavoro che lo Stato gli ha dato per ricominciare da capo: fare l’operatore ecologico nel suo quartiere per raccogliere informazioni e rovistare nei rifiuti con lo scopo di trovare eventuali ordigni esplosivi o le loro composizioni chimiche. Kaled torna nel ghetto. Si rivede con il fratello Ahmet che è stato lasciato da moglie e figli e conosce i vicini Ali e Meral. Prova a ricominciare anche se le cose sono cambiate e – come dice a uno dei personaggi – “vent’anni fa lottavamo per avere il pane mentre oggi ci uccidiamo tra di noi”. Ma se Kaled sembra tagliato fuori da questo mondo, il fratello Ahmet non è da meno. Viene pagato dal comune per giustiziare i cani randagi ma si chiude in casa quando ne trova uno ferito, decidendo di accudirlo e di non rispondere più al telefono. Kaled prova a comunicare con lui invano. Si insospettisce e  quando Ali e Meral scompaiono nel nulla inizia il delirio e la caccia al terrorista.

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Film strano. Affascinante, “malato” e allo stesso tempo faticoso, si porta avanti misurando tanti ritmi diversi. Come la mente e la percezione dei due protagonisti, è diviso schizofrenicamente in due: una prima parte compassata, quasi antropologica, ma con frammentati segnali di deviazione, in cui Alper incastona l’incomunicabilità tra i due fratelli in una quotidiantà straniante e distaccata, forse persino incerta tra tonalità neorealistiche e grumi di ironia malata – l’opprimente esecuzione insistita dei randagi, il rapporto tenero e divertito tra Ahmet e il cane che decide di tenere in casa, le fantasie erotiche di Kaled. Così all’inizio nonostante una macchina da presa attaccata ai suoi personaggi e spesse volte interna alle mura domestiche del quartiere non è facile entrare nel film e intercettare il cuore delle solitudini paranoiche di Kaled e Ahmet. Al punto che sembra più interessante concentrarsi sulle angosce sonore, sui fasci di luce militareschi che tagliano la notte, sulla fisicità del cemento, dei rifiuti, di calcinacci, mura e appartamenti in via di devastazione. Finché a un certo punto il film esplode e diventa davvero un thriller paranoide tutto interno alla testa di Kaled che vede complotti e terroristi ovunque, trasformando il film in un potentissimo Repulsion polanskiano in chiave politica. Qui Alper dimostra il suo talento, libera il film verso un ritratto apocalittico infernale e trasforma la sua Istanbul nella concitata e rabbiosa Belfast di Jim Sheridan. Le allucinazioni si inseguono in una notte sempre più buia, dove la famiglia implode nel sospetto e nella frattura di un legame impossibile da ritrovare. Le esplosioni, i fuochi, i soldati diventano non soltanto la radiografia di un presente allucinato, ma i fantasmi di un passato rimosso, di una mancanza (un terzo fratello misteriosamente scomparso!?) che brucia e si plasma con un senso di colpa rimosso, trasformato in incubo.

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