#Venezia73 – 22 July, di Paul Greengrass

La strage di Utoya e l’occhio da cronista di Greengrass. Per lui la storia è, innanzitutto, quella accaduta. E il cinema è una questione polifonica. Ma la tensione action si placa. In concorso

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Ritorno sulla scena del crimine. Dopo il tempo “reale” dell’unico, discutibile piano sequenza di Erik Poppe, a pochi mesi di distanza ecco un altro film sulla strage di Utoya del 22 luglio 2011. Il fanatico di estrema destra Anders Behring Breivik, dopo aver fatto esplodere un furgone davanti al palazzo del governo di Oslo, travestivo da poliziotto e armato fino ai denti, si imbarca per l’isolotto al largo del Tyrifjorden, in cui si sta svolgendo un raduno di giovani organizzato dal Partito Laburista norvegese. Qui apre il fuoco sui ragazzi, uccidendo chiunque gli capiti a tiro. Alla fine della mattanza, la conta sarà di 77 morti e centinaia di feriti. Uno degli episodi più assurdi della lunga stagione di sangue di questi anni e l’occhio da cronista di Paul Greengrass. Per lui la storia è, innanzitutto, quella accaduta. Da Bloody Sunday a United 93, sino ai nuovi pirati dei mari che assaltano il Capitano Phillips.  Il metodo è lo stesso. Attenersi ai fatti, quanto meno alla loro “verità” certificata, ma attraversandoli con la potenza di fuoco di un cinema al limite della tensione. Ma qui Greengrass placa le fibrillazioni action del suo stile. Le vicende dell’attentato si esauriscono nella prima parte film, nel giro di una mezzora o poco più. Tutto condotto con la solita frenesia della macchina a mano, gli spiazzamenti delle dislocazioni spaziali, la molteplicità delle prospettive, i preparativi di Breivik, i ragazzi a Utoya, gli uffici del primo ministro… Del resto, i colpi di fucile sono tanti, troppi. L’esatto contrario del tour de force di Poppe che si diverte a mimare il tempo effettivo della strage sull’isola, con un one shot ai limiti del lecito.

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Per Greengrass il cinema, invece, è quasi sempre una questione polifonica, che è il riflesso di una complessità difficile da decifrare, fino al limite del caos. E il suo apporto autoriale sembra mimetizzarsi tra le voci del coro, per reggerne i fili dall’interno, da una posizione quasi invisibile, per chiarire le traiettorie e i punti nodali delle situazioni. Perciò anche la seconda parte del film, che si concentra sulle indagini e sul processo a Breivik, è un affare di prospettive molteplici. Le farneticazioni razziste dell’attentatore, la riluttanza del suo avvocato difensore, la ricerca delle responsabilità da parte del Primo Ministro Jens Stoltenberg, il dramma dei sopravvissuti, a cominciare da Viljar, che sconta le tante ferite, nella testa e nell’animo. Greengrass porta a casa la sua missione, da professionista, ma mostra minor agio ad addentrarsi nelle profondità delle vittime e del carnefice, così come ad analizzare il contesto da cui è nata la tragedia. La tensione si appiana e 22 July si lascia andare lungo un terreno liscio e scivoloso, come fatto di ghiaccio. A parte alcune impennate (come la corsa sulla motoneve) il film sembra quasi appiattirsi sulla sua destinazione commerciale da prodotto Netflix. Almeno finché tutto non riacquista vigore, nel momento in cui si innesca un altro conflitto capace di condurre a una resa dei conti finale. Ed è il momento in cui Viljar affronta Breivik in aula, lo sfida viso a viso col suo occhio cieco. La lunga preparazione trova finalmente il suo affondo, nell’urgenza politica di ribadire le ragioni della vita contro le oscure forze della rabbia e della paura.

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