#Venezia75 – Adam und Evelyn, di Andreas Goldstein

A partire dalla prospettiva di una storia d’amore, lo spiazzamento di una generazione nata e cresciuta “tra le mura” della DDR, alle prese con l’illusione di un nuovo spazio libero. Nella SIC 33

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Lo spazio libero è il tema proposto dalla Biennale di architettura di quest’anno. I curatori del Padiglione della Germania hanno colto l’occasione per raccontare i vuoti lasciati dalla caduta del muro di Berlino, i grandi progetti sulla linea di confine, le opere di rioccupazione e riconversione. Con tanto di dati sui flussi demografici ed economici successivi alla riunificazione, che testimoniano le disparità tra cittadini provenienti dall’ex DDR e quelli della vecchia Repubblica Federale. Andreas Goldstein, con Adam und Evelyn, sembra muoversi lungo la stessa linea. Raccontare le macerie e gli spazi vuoti della fine di un’epoca, a partire dalla prospettiva “privata” di una storia d’amore. Un uomo e una donna qualsiasi. Il primo uomo e la prima donna… Adam ed Evelyn vivono un’estate di crisi. Si lasciano e si inseguono, dalla Germania dell’Est fino alle sponde del Lago Balaton, in Ungheria. Lei se ne è andata, per gelosia e per desiderio di una nuova vita. Lungo il cammino incontra un altro uomo, della Germania federale, che le offre il sogno dell’occidente. Adam si mette alla sua ricerca, nel viaggio raccoglie per strada una ragazza senza documenti. Ci si muove tra le frontiere come contrabbandieri o clandestini. Ma non è un’estate qualsiasi. È il 1989. La cortina di ferro si sta dissolvendo. In Ungheria si apre un varco verso l’Austria. Il primo uomo e la prima donna possono finalmente entrare in quella che a loro era sempre apparsa come la terra promessa. Non sanno di star perdendo, per sempre forse, il paradiso.

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La storia biblica è l’immagine poetica con cui Goldstein affronta la crisi del cambiamento, l’inevitabile spiazzamento di una generazione nata e cresciuta “tra le mura”, abituata al controllo e all’invadenza burocratica, nell’istante in cui si ritrova tra i miraggi e le trappole di uno “spazio libero”. Si passa dal poco al troppo, “troppo di tutto” come dice Adam. La velocità della nuova economia cancella le vecchie abitudini e i vecchi saperi. E la libertà è un’illusione che risponde ad altri meccanismi, ad altre forme di controllo e divisione. Uno dei momenti più divertenti del film è quello in cui Evelyn sostiene un colloquio e spiega al suo interlocutore incredulo i motivi e i modi con cui è arrivata ad ovest. Cercando di sfuggire ancora una volta all’incasellamento burocratico, all’anagrafe ottusa in cui si cerca di rendere lineari le mille curve della vita. Una scena a cui, poco dopo, segue il desolato quadro finale, con la coppia che ammira il verde dall’altro free space della casa tutta nuova, pallido riflesso del giardino edenico da cui erano partiti.

L’intuizione è giusta. E Goldstein non ha remore nel dire ciò che si è perso nel passaggio all’unità, una riconciliazione che, invece di sanare, ha acuito le ferite. Lo racconta chiaramente, con calma, senza bisogno di voli pindarici o grandi drammatizzazioni. Tutto scorre lentamente, quasi con catatonica indifferenza, tra sequenze fisse e dialoghi a metà tra la rassegnazione e l’ironia. Non c’è mai uno scarto, una differenza, neanche quella del materiale di repertorio, limitato alle semplici cronache radio o all’audio dei servizi televisivi. Quasi a voler rimarcare nella forma una specie di asettica condanna alla ripetizione, senza soluzione di continuità tra un prima e un dopo. Una scelta di stile funzionale, quella di Goldstein, ma che nella sua monotonia segna a lungo andare una distanza nei confronti del film. Come se fossimo ancora sospesi nella bolla precaria di un paradiso solitario e impossibile.

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