#Venezia73 – Akher Wahed Fina (The Last of Us), di Ala Eddine Slim

The Last of Us coglie in questa fascinazione prima per l’immagine e per la bellezza del gesto l’unica presa di posizione estetica su un dramma come quello dell’immigrazione. SIC.

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Deserto, oceano, città, foresta, sino alla totale perdita. Un notevole esordio quello di Ala Eddine Slim, giovane regista tunisino che ha il coraggio di porsi e porci i più urgenti quesiti sulla nostra contemporaneità scartandoli nelle pieghe delle immagini e facendo deragliare il suo film verso un’astrazione visiva che inabissa ogni riflessione contingente per renderla universale. Il protagonista è un last of us, appunto, un ultimo rintracciato (per caso) dalla macchina da presa nello spazio liminale del deserto: del resto la fuga disperata dall’Africa centrale verso l’Europa passa per forza di cose dal deserto e dalla risoggettivazione traumatica che quel viaggio comporta. Il film inizia con un pedimemento alla Béla Tarr di un uomo che arriva in Tunisia, attraversa una città, si spinge sino alla costa, accarezza il mare, ruba una barca, infine viene risucchiato dalle onde. Mai “visto” da nessuno, attraversa gli spazi e le inquadrature come un fantasma (della storia).

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Ecco allora: la mancanza totale di parole e di qualsivoglia appiglio narrativo chiama in causa politicamente il cinema come dispositivo prelinguistico, ossia come “materia intellegibile che è come un presupposto, una condizione, un correlato necessario attraverso cui il linguaggio costruisce i propri oggetti” (mi vengono in mente queste lucidissime parole di Deleuze per descrivere l’atteggiamento estetico di Ala Eddine Slim). The Last of us, insomma, delega ogni ricerca di senso alle immagini e alla musica, alla loro dialettica, perché N non ha voce, il nostro mondo ha deciso di non ascoltarla. E allora il cinema si arroga il compito di inseguirlo per immaginare un futuro: è il cinema – medium novecentesco – che nella contemporanea sfasatura storica, paradossalmente, può concedere una voce e regalargli una “soggettiva”. Suturando (politicamente) il nostro sguardo a quello di N: tutta l’ultima parte del film è una letterale spoliazione dai residui “sociali” e da ogni convenzione di “impegno civile” per perdersi nella foresta e ritrovare un contatto primo con le cose e le persone.

2The Last of Us, allora, coglie proprio in questa fascinazione prima per l’immagine e per la bellezza del gesto (camminare, mangiare, bere, cacciare, sorridere, ecc) l’unica presa di posizione estetica su un dramma come quello dell’immigrazione. Un film che abbozza un racconto canonico ma poi ci rinuncia all’istante, per configurare la morte civile di una persona e la sua nuova identità nell’astrazione dei (nostri) sentimenti. Perché in questo film di attraversamenti, di (falsi) raccordi abbozzati, di campi lunghi sulla natura e di continui spostamenti, è paradossalmente il “primo piano” a restare tatuato nei nostri occhi. Un dignitoso e scultoreo primo piano che cattura costantemente lo stupore di un fanciullo, al primo contatto con gli elementi: N si spoglia letteralmente di ogni identità e ne acquista una nuova, la più vicina possibile alle cose del mondo, aprendosi infine alla fusione totale con la natura (dell’immagine). Un finale bellissimo.

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