#Venezia73 – Brimstone, di Martin Koolhoven

In questa cura formale e a tratti asfissiante, in questa fredda consapevolezza teorica esibita e lucidissima, si annida il grande interesse ma anche il punto debole di tutta l’operazione. Concorso.

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1) Apocalisse. Dov’è ambientato esattamente questo Brimstone? Nel west americano, si dirà, è chiaro sin da subito. La civilizzazione avanza lentamente, il villaggio odora ancora di “nuovo”, una donna incinta sta per partorire cementando il nascente senso di comunità… e allora non si può che partire dalla “genesi” per raccontare classicamente la nostra “storia”. Invece no. Si parte dall’Apocalisse, si parte dalla fine del percorso dei due protagonisti, si parte dalle cicatrici interiori della giovane Liz (Dakota Fanning) che riemergono come un rimosso traumatico alla vista del nuovo reverendo (Guy Pearce) inquadrato come una entità soprannaturale. Figura austera, ancestrale, inquietante incarnazione dell’’interpretazione più radicale del Vecchio Testamento, colui che predica un cristianesimo puro da “impiantare” nella nuova terra appena civilizzata. Dall’Apocalisse alla Genesi, quindi, in questo viaggio a ritroso nel tempo, nella memoria, nel west… ma il western?  Questa è una declinazione molto europea del western (non solo produttivamente): il giovane regista tedesco/olandese predilige costantemente il primo piano al campo lunghissimo, cristallizza ogni movimento a favore della stasi, ci immerge in una fotografia ricercatissima che dai cacciatori nella neve di Brugel arrivi sino alla Pietà di Michelangelo, ragionando (apertamente) sulle fratture del tempo e sacrificando ogni apertura sugli spazi (cosa quasi sacrilega per un western). Insomma questa ferrea divisione per capitoli biblici, vagamente vontrieriana più che tarantiniana, rimescola la cronologia temporale della durissima vita di Liz e mette fuori campo ogni intermezzo, ogni viaggio, ogni spostamento (insomma il western…), prediligendo le situazioni alle azioni e presentandosi perciò come uno straniante ibrido tra il “genere americano per eccellenza” (iconograficamente rispettato con filologica perfezione) e il “Kammerspiel europeo” (ripetuti echi di Dreyer e Bergman). Un film rinchiuso nel volto di una donna che brama libertà e si addossa le colpe ancestrali di un machilismo brutale. Brimstone è da qualche parte, tra l’America e L’Europa, si potrebbe quasi ipotizzare…

brim2) Genesi. Chi sono questi personaggi? Liz è la figlia di una immigrata olandese, è la prima americana della famiglia, il suo sguardo si perde nello spazio e cerca il movimento, ma è sempre castrato da un Super Io violento e vendicativo che la insegue come un’ombra. Ecco allora: se il genere western nel periodo classico ha narrativizzato il divenire dell’uomo americano che si spoglia dei residui europei risoggettivizzandosi a contatto con la natura selvaggia (e creando un solidissimo immaginario trasformato ormai in “epica”), questo Brimstone ne è sin troppo consapevole ponendosi volontarimente sempre un attimo prima. Koolhogen scrosta il western dall’aura mitica e cinefila, lo blocca in una lotta senza confine alle restrizioni puritane incarnate da un revertendo/padre/predicatore/angelo-della-morte (un Guy Pearce in versione Robert Mitchum). Del resto Amore e Odio erano le due parole tatuate sulle dita del predicatore Harry Powell ne La morte corre sul fiume, capolavoro intimamente americano ma diretto da un europeo, il film che Brimstone sembra omaggiare a più riprese e con evidenti sopravvivenze di immagini.

3) Cinema. Cosa rimane di Brimstone? Eccoci al punto: è in questa cura formale a tratti asfissiante, in questa frontalità di una violenza arcaica e ferina, in questa fredda e lucidissima consapevolezza teorica, che si annida il grande interesse ma anche il punto debole di tutta l’operazione. A conti fatti Brimstone affascina ma non emoziona, cattura gli occhi ma non il cuore, crea potentissime immagini singole ma mai un immaginario in cui farle vivere. Un film ibrido, difficile, respingente, ma che lascia più di una traccia. E non è poco.

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