#Venezia73 – El Cristo ciego, di Christoper Murray

Si viaggia spediti sul filo della maniera, a tratti una bella maniera, robusta, mai banale, ma fondamentalmente priva del fuoco dell’umana passione. In Concorso.

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Il suono della fede serve a riempire questo vuoto”, dice il vecchio custode di una chiesetta sperduta nel deserto. Siamo in Cile, oggi, nella regione povera che si affaccia sulla Pampa del Tamarugal, dove un giovane meccanico del luogo (dopo aver perso da piccolo la madre) ha maturato una convinzione a dir poco scioccante: crede di essere una nuova reincarnazione del Cristo, vuole essere Cristo, e si impegna a provarlo sperimentando prima il dolore fisico e poi un’erranza/predicazione che lo porti verso il compimento di un miracolo. Ossia la desiderata salvezza di un suo vecchio amico ora gravemente malato.

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E allora: rigore registico, movimenti di macchina lenti e inesorabili, campi lunghi e lunghissimi sulla natura dura e selvaggia, pedinamento del personaggio teso a un reale fenomenico che oltrepassi lo schermo. Insomma è ormai chiaro che il cinema sudamericano di quest’ultimo decennio riconosca l’eredità estetica delle “vague” europee anni ’60 come un fortissimo referente stilistico che va aggiornato all’esplosione dei supporti e al dettaglio digitale. Ognuno con le sue prerogative, naturalmente, ma registi “da festival” come Lisandro Alonso, Amat Escalante, Pablo Larraìn o Lorenzo Vigas inseguono con fiducia i loro “difficili” protagonisti in liminali pedinamenti nella Storia. Il giovane Murray s’inserisce pienamente in questo discorso, immaginando il suo Cristo contemporaneo che vaga per deserti e villaggi sperduti, incontrando situazioni umane al limite (non scevre da un pericoloso bozzettismo) e raccontando parabole che permettano (a noi) di posare uno sguardo complice sulla complessa e drammatica situazione di quelle zone. Ma è anche un Cristo cieco quello di Murray, perché brama di essere ciò che crede di essere, imponendosi di compiere il miracolo divino senza riuscire a riconoscere quelli terreni nell’umana condivisione. Gli altri, intorno a lui, iniziano però a credere a questa fede come “desiderio” di fuoriuscire dal vuoto della Storia (s’insinua il messaggio pasoliniano in quest’erranza?), perché in fondo basta anche un piccolo campanello per squarciare il silenzio o la cecità.

Indubbiamente un film ambizioso, a suo modo maturo nel saper immergere questo personaggio così estremo in un “reale” ancora più estremo. Ma alla lunga qualcosa non funziona in questo teorema, perchè presto ci accorgiamo che il rigoroso pedinamento non sa quasi mai restituire l’urgenza sentimentale dei personaggi di Larraìn o la vertiginosa universalità dei fantasmi di Alonso. L’inquadratura di Murray, insomma, non apre mai fertili crepe nella sua perfezione formale. E a differenza delle destabilizzanti linee centrifughe di El Club o Jauja, verso un fuori campo che solo noi spettatori possiamo immaginare… le (pittoriche) inquadrature di Murray tendono a comprimere gli sguardi e gli spazi come funzioni contingenti e necessarie solo per superare la cecità del suo Cristo. Si viaggia spediti sul filo della maniera, a tratti una bella maniera, robusta, mai banale, ma fondamentalmente priva del fuoco di un’umana passione che fuoriesca da quello schermo. Peccato.

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