#Venezia73 – Laavor Et Hakir (Through the Wall), di Rama Burshtein

Con Laavor Et Hakir, sua opera seconda, continua a sorprendere la sensibilita di Rama Burshtein nel raccontare la propria comunità attraverso storie femminili universali. In Orizzonti.

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Dopo aver aperto una breccia dentro il mondo poco conosciuto degli ebrei ortodossi d’Israele, la regista Rama Burshtein torna a raccontare il matrimonio di un’altra donna al centro degli sguardi e degli interessi della sua comunità. Nonostante la fortunata esperienza de La sposa promessa (presentato proprio a Venezia qualche anno fa) continua a sorprendere la capacità della regista di raccontare il proprio popolo, la propria comunità, senza enfatizzarne gli aspetti più “esotici”. L’obiettivo della Burshtein, infatti, sembra solo quello di mostrarci semplici racconti d’emozioni, mantenendo un respiro universale tale da rendere immediata l’empatia nei confronti dei dolori e delle gioie delle sue protagoniste. Laavor Et Hakir racconta la folle e coraggiosa corsa contro il tempo della non più giovane Michal, ragazza in cerca di un marito da sposare, a qualsiasi costo, l’ultimo giorno di Hannukkah. Al di là dei dettagli culturali (l’ebraismo ortodosso ha una sua relativa importanza nella trama) e locali (la divertita colonna sonora interamente formata da brani pop israeliani) non sarebbe difficile immaginare la storia di Michal ambientata a New York, a Londra o a Milano, testimoniando la sensibilità di un’autrice capace di realizzare pellicole dal cuore intimamente internazionalista.

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Rama Burshtein nella sua seconda opera, pur muovendosi in territori vicini alle commedie cittadine e femminili statunitensi (la vicinanza narrativa è evidente nei particolari, dal gruppo di amiche che circonda la protagonista alla serie di “colloqui” con gli spasimanti, episodi quasi usciti fuori da un film di Apatow), contintua, irremovibile, il suo discorso politico. Il matrimonio, questo monolite su cui si basa la società conservatrice ebraica (e non), diventa lo strumento perfetto, per le protagoniste della Burshtein, per riaffermare la propria indipendenza e autonomia. Michal come la Shira de La sposa promessa, pur arrivando a questo fatidico giorno da premesse opposte, trova dentro il suo abito bianco la forza per gridare il coraggio dei propri sentimenti e delle proprie emozioni (“non voglio morire sola, voglio finalmente essere amata” sono parole banali che, dalle sue labbra assumono un significato decisivo), rivendicando cosi il proprio sacrosanto diritto ad essere felice. E’ da qui che parte la rivoluzione leggera della regista, ebrea osservante ma impegnata, con i suoi personaggi femminili, a sottolineare la propria solida indipendenza emotiva, talmente trascinante da essere un fiume inesauribile e vivo dentro uno stanco, piccolo mondo antico.

 

 

 

 

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