#Venezia73 – Pagliacci, di Marco Bellocchio

Il nuovo corto nato da Fare Cinema a Bobbio presentato alla Settimana della Critica. Una gemma esplosiva, che ha la gioia della smarginatura, un carnevale, un gioco di liberazione

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Libero di non essere più me

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libero di non piacerti più

libero di buttare tutto via

 

Tutto Bellocchio in 18’. Il suo cinema presente, quello passato, perché, a dispetto di chi dice che il passato non torna, in realtà non se n’è mai andato – tutto è sempre qui, ben piantato tra lo stomaco e il cuore, dannazione… E, molto probabilmente, il suo cinema futuro, che già possiamo vedere proiettato sui nostri anni a venire, con le maschere di Belfagor e i fantasmi che girano in tondo all’albero di noce, come in una visione del sabba. Tutto è condensato qui, come ristretto in un punto. Ma non è un proprio punto, è qualcosa che vortica e si muove, si apre in uno sbuffo. È una virgola, un segno di interpunzione che distingue gli attimi, le inflessioni di lettura, i cardini della struttura, ma non separa. Semmai aggiunge e accumula. O magari oppone. Fa scontrare ed esplodere in scintille i pezzi della frase, i pezzi di una vita.

 

Il cinema di Bellocchio, in oltre cinquant’anni, non sembra essersi mai mosso, sempre fermo a Bobbio, sempre coi pugni in tasca, con le madri da assassinare e le sorelle da santificare, le donne da amare in terra e odiare in cielo, le corse furiose e le grida dei pazzi, gli esoterismi ipnotici e le sedute spiritiche, i morti che comandano e i vivi che bestemmiano. Anche noi ci ripetiamo, scrivendone. Eppure nulla è mai, è più come prima. Si muove il mondo, e quindi si muovono i pensieri, gli umori cambiano, le analisi si moltiplicano e si approfondiscono, le intuizioni aprono nuovi spazi e allargano lo spettro (gli spettri) della visione. È ovvio che tutto torni a quel nucleo di fondo, intatto e inattaccabile, raggrumato nella palla incandescente delle ossessioni. Che per Bellocchio è la questione fondamentale dello stare al mondo, e cioè la vita intima, quel riflesso individuale delle nostre relazioni, familiari, sociali. E di fronte ai groppi interni, per scioglierli, non è più tanto questione di gridare la propria rabbia, come un tempo. Semmai di insofferenza, di sfuggire alle regole, ai controlli, alle strutture, a quelle imposizioni che sono sempre la pratica del potere, qualunque esso sia. Evadere dalla ronda dei carcerati, quella su cui si apre, misteriosamente, Pagliacci – ma è in bianco e nero o me lo sono sognato? Non è forse il colore, quella pennellata densa e folle, la prima evasione? E allora, se i suoi personaggi urlano e danno di matto, che fa Bellocchio, da par suo, per evadere? Libera la forma con un’insistenza che, film dopo film, diventa sempre più pressante, urgente. Fottendosene della precisione delle connessioni, di quel realismo che ancora oggi si sbandiera come un totem, delle verosimiglianze e delle tenute narrative, che non c’entrano con il cinema, ma con le regole della manualistica, delle letture critiche che arrivano sempre dopo e stanno dalla parte, il più delle volte, dei secondini.

 

pagliacci2Già Sorelle Mai segnava un punto di non ritorno, ma, ancora una volta, dalla scuola di Fare cinema a Bobbio arriva un’altra gemma, ancora più eversiva proprio perché concentrata in pochi minuti. A cominciare da quelli iniziali, in cui, tra le prove dell’opera di Leoncavallo, si dà un saggio di rappresentazione nella rappresentazione che è una meravigliosa danza continua tra il dentro e il fuori scena e che manda in subbuglio tutte le sovrastrutture e i sofismi sulla verità e la finzione. Nella nave dei folli le gerarchie prestabilite dei ruoli saltano. E da quel momento in poi è tutto un carnevale, una girandola di scene che hanno la felicità dell’insensatezza. Far finta che ci siano i topi e buttarsi sotto al tavolo, per “nascondersi” dagli altri e parlare al proprio fratello, come se stessimo parodiando la convenzione di un a parte teatrale. Immaginare una bisca nel sottoscala, con l’irriducibile Gianni Schicchi che gioca a poker… E fingere un’improbabile retata di polizia, spegnendo una luce. Frammenti di cliché rovesciati, come nei fumetti più assurdi o nelle storie inventate da bambini, con gli oggetti che cambiano di segno e si trasformano al tocco di una bacchetta magica. La magia, già… c’è sempre un che di stregonesco in Bellocchio, come una formula, un rito, una seduta d’ipnosi (o di psicanalisi?). Ma è uno stregonesco che esce fuori dai circoli, dalle giostre, dai cenacoli. L’esoterico diventa essoterico e rifluisce nel pubblico, si spande per le strade, le confonde e le sregola, apre nuove direzioni, vie d’entrate e di uscita. Non ce lo saremmo mai immaginato prima, colpa della nostra vista corta. Ma per Bellocchio il cinema ha la gioia della smarginatura, è un gioco di liberazione che ha ben pochi eguali oggi. Infatti la Fracassi spara alla madre (Lucia Ragni, cui il corto è dedicato) con un fucile giocattolo. Non si uccide più oggi. Perché di certo i mostri, i totem, i cerberi, i figli di Edipo continuano il loro lavoro di censura. I ricordi, le paure, il passato e il presente che stringono. Oggi non si deve fare sul serio. Non c’è bisogno di pagliacci piangenti. Oggi si deve ridere. E far fuoco con le immagini, i pensieri e i cuori.

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