#Venezia73 – Verso nuovi Lidi: Lav Lav Land

Sì, è stata una Mostra di Venezia interessante, a prescindere dalle delusioni, dalle aspettative inevase, da alcune scelte di programma e collocazioni che fatichiamo a comprendere

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È tutto relativo. Da anni, noi di Sentieri selvaggi portiamo a Venezia alcuni allievi dei nostri corsi di critica e giornalismo. Per la gran parte di loro, si tratta della prima esperienza (parola che sembra esser diventata decisiva in questi ultimi giorni) in un grande festival. Poter vedere film dalla mattina alla sera, seguire le conferenze stampa, dare un’occhiata al red carpet per incrociare, finalmente dal vivo, autori e attori che fino a quell’istante erano stati solo nomi e immagini. Riuscire magari a far qualche intervista, sedersi a una round table, poter confrontarsi con altri sguardi, altre esperienze, giovani appassionati, giornalisti di lungo corso, Critici laureati. Insomma, bei momenti e, soprattutto, un gran banco di prova dove mettere in gioco le proprie sensibilità e predisposizioni (capacità di collegare le idee e le suggestioni, velocità di elaborazione e scrittura, etc…). Tenendo in conto anche la possibilità di ridiscutere i pregiudizi, quelle (finte) certezze che si danno per acquisite. Alla fine – e di questo sono sempre più convinto – non è mai il giudizio il punto della questione, quella valutazione tutto sommato sterile che ti obbliga a dire se un film è buono o meno e tradurre questo infinito scrutinio in voti, stellette, palline, coccarde, nastrini, pollici in giù o in su (in bocca, nel naso o altrove…). Com’è questo film? Buono, sei e mezzo… Il punto, semmai, è potere costruire percorsi tra le idee e le emozioni, riuscire a comunicarli, rimetterli in circolo per farli dialogare e, al limite, scontrare con le infinite traiettorie possibili, le mille pratiche del cinema, i mille sguardi degli spettatori più o meno consapevoli. E, soprattutto, con il mondo là fuori, quello che sta oltre la sala, gli spazi transennati di un festival che prova a blindarsi, quello a cui dobbiamo tornare, sempre… Sì, per chi arriva a Venezia la prima volta, è una grande avventura. Ma per me, per noi (che siamo intorno ai quaranta, come cantava qualcuno) l’esperienza è sempre più faticosa, è un disagio che c’entra solo in parte con l’accoglienza precaria del Lido, i suoi prezzi, le sue lentezze, i suoi ostracismi, col fatto che in sala stampa non ci sia neanche un po’ d’acqua da bere, figuriamoci un programma per leggere i file in pdf. C’entra più con il fatto che qui il confronto sia ormai possibile solo con pochi, oltre le indisposizioni, al di fuori degli schieramenti, dalle fazioni, politiche prima ancora che critiche.

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Ecco, se davvero c’è un “problema Venezia”, forse è proprio nell’assenza dell’esterno, nell’impossibilità di evadere, fosse anche per un minuto, dalle logiche autoreferenziali d un macro evento che sembra non aver alcun aggancio reale con il mondo, con le dinamiche della vita quotidiana, persino con il territorio in cui si inserisce. Tant’è che sono bastati pochi chilometri e andare ad Alberoni, alla sagra del peocio (vertigine massima di questa Venezia 73), perché tutto il baraccone festival diventasse un’eco sottile, quasi una specie di pallido ricordo… La Mostra del Lido è una terra a sé, che sembra non aver più nulla da spartire con la velocità del contemporaneo, come sospesa in un tempo immobile… L’Excelsior, il Des Bains, le vecchie spiagge di sabbia fine, che sembrano ancora quelle di Visconti (per non dire di Thomas Mann), il tabaccaio all’angolo, il Palazzo del Casinò… Quanto è cambiato nel corso degli anni? Le uniche regole che vigono qui, in questa terra fuori dal tempo, sono quelle del sistema produttivo-distributivo cinematografico, degli equilibri e rapporti di tensione tra festival. E poi tutta una serie di rituali mondani che si ripetono stancamente e che sembrano interessare solo la stampa (per lo più italiana), intenta a ballare mentre la nave va alla deriva. Certo, anche Cannes sembra una corte regale schiava del protocollo. Ma lì, però, del sistema-cinema riesci a cogliere i processi, puoi toccarne dal vivo tutte le dinamiche economiche e culturali, puoi riuscire a captare quel fremito, quel frenetico lavoro che detta i tempi e i ritmi delle cose, finendo per circondare e invadere l’istituzione festival. Mentre a Berlino la dimensione della metropoli ingloba il cinema, l’esperienza della visione, per espanderne le traiettorie all’infinito. Qui a Venezia è come un infinito parlarsi addosso. Un mondo richiuso in se stesso, arroccato nell’illusione di una gloria antica, mentre i tempi son cambiati, le possibilità di fruizione, accesso, condivisione si sono moltiplicati all’infinito. Il gattopardo del cinema… E perciò non meravigliano affatto le stupide polemiche avanzate da alcuni giornalisti dopo il Leone d’Oro a Lav Diaz. Sono il riflesso perfetto di questa deriva, di uno

venezia73_giardino scollamento con il reale, di un’incapacità e, tutto sommato, un disinteresse a ragionare sul cinema e il linguaggio nel suo rapporto con il mondo, la Storia, la vita. Si afferma che avrebbe dovuto vincere La La Land, si parla di pubblico, ma sempre nella convinzione che l’aspirazione massima sia l’evasione, la fuga, e quindi il rifiuto. Nel presupposto che il resto sia solo una fatica, una cosa di cui liberarsi nel grande circo del sogno. E La La Land sembra la punta estrema di un cinema (americano, per lo più) che riflette sulla forma e il suo scintillio, per costruire impalcature poggiate sul vuoto. Chazelle, Ana Lily Amirpour, anche Villeneuve (che continua a disegnare i cerchi col compasso, purtroppo) e Cianfrance a modo loro, sono davvero cattedrali costruite nel deserto, assomigliano a questa Mostra del Lido, lucidi cubi rossi appoggiati su una voragine, sul miraggio del nulla. Barbera e la sua squadra guardano alla corsa agli Oscar, con un’operazione predittiva giù riuscita nei casi di Gravity e Il caso Spotlight. E forse anche quest’anno centreranno l’obiettivo. Ma resta l’idea che questa sia più la facciata che la sostanza, più il sintomo di una moda che un discorso concreto su ciò che il cinema ha ancora da dire su quanto stiamo vivendo. Certo, questi film sono solo una delle tante tracce di questo festival. Che prova a marcare la sua differenza, rispetto alle macchine “mercantili” di Cannes e Toronto o alle mille connessioni berlinesi, puntando proprio sulle idee fondanti di mostra e di arte, come è stato giustamente detto. Il festival di Barbera sembra aver rinunciato a perseguire una sua idea di cinema e a tracciare percorsi, come avveniva negli anni di Müller, in cui c’era ancora la convinzione che organizzare, selezionare, “far vedere” volesse dire a pieno titolo “fare cinema”. Qui, nella mostra, entrano le visioni più disparate. Dal luccichio musical hollywoodiano di Chazelle al documentario di ricerca di D’Anolfi e Parenti, dai polpi fantascientifici di Villeneuve al tentacle porn di Amat Escalante. Ci sono i vecchi autori che perseguono le loro strade, tra il 3D di Wim Wenders e la solitudine sempre più esclusiva di Malick (che ormai, nonostante National Geographic, sembra non voler più esser seguito da nessuno) e la commedia giovanile, veloce e dolceamara di Roan Johnson. C’è un rinnovato interesse sui generi, che spazia dalla fantascienza all’horror e al melodramma in costume, e lo sguardo gelido “europeo” di Ulrich Seidl. C’è il bianco e nero di Diaz, Ozon, Konchalovsky e, d’altra parte, i colori al neon di The Bad Batch. Forse manca all’appello l’Estremo Oriente (assenza solo in parte compensata da alcune presenze nelle sezioni collaterali, a cominciare da Wang Bing), a riprova della sensazione che qualcosa, negli ultimissimi anni, si sia perso della nostra capacità di guardare a quei mondi. Ma in definitiva l’offerta è tale da accontentare quasi tutti i gusti. Non è detto che sia una male. Tanto poi ognuno riesce a creare le connessioni e i percorsi che vuole. E i film di questa Venezia sembrano raccontare, tra le righe, il cortocircuito fatale tra il linguaggio (la parola, l’immagine) e il mondo, tra i sistemi di codici, segni, le modalità di espressione e l’essenza delle cose (da Villeneuve a Larraín). In definitiva, ciò che manca e che quindi riaffiora sempre come un’ossessione, un’ansia, è la verità, persa tra le impalcature retoriche e le manipolazioni spettacolari, tra le sovrastrutture del pensiero e le memorie precarie, falsate dalle sensibilità, dalle prospettive soggettive. “Tutti mentono”, come dice l’affranta Jeanne in Une vie di Brizé. Ed è una sentenza che riguarda non solo la morale, i nostri atteggiamenti nei confronti degli altri, ma ancor prima la nostra inclinazione a scappare, a rifugiarci nell’illusione di una tana che ci siamo costruiti a bella posta, protetta dai silenzi, dalle nevrosi, dalle invenzioni fantastiche, dalle mezze verità. Fino ad arrivare a coinvolgere la convenzionalità artificiale dei linguaggi codificati e le stesse modalità espressive delle immagini, capaci di cambiare di segno i fatti e di modificare il corso della Storia, delle storie. Da Tommaso di Kim Rossi Stuart a Jackie di Larraín, è davvero tutto un mentire, a sé e agli altri. La domanda, allora, è: come e cosa ricordare, come e cosa raccontare? E mi piace immaginare che i 226 minuti di Lav Diaz stiano lì a illuminare, a riempire i vuoti, le ellissi della storia che punteggiano quella vita raccontata da Brizé. Sì, è stata una Mostra di venezia-73-2Venezia interessante, a prescindere dalle delusioni, dalle aspettative inevase, da alcune scelte di programma e collocazioni che fatichiamo a comprendere. Perché relegare al fuori concorso Austerlitz di Sergei Loznitsa, l’atto di fede più lucido nel potere implacabile delle immagini di dire ogni cosa, sia il fuoricampo della verità storica sia l’in campo delle pratiche manipolatorie del presenzialismo social?

 

Se vogliamo davvero rintracciare un limite di questi anni di direzione Barbera è l’assenza di un lavoro di ricerca e di scoperta. Cannes ha, comunque, avuto la costanza e il merito di creare una propria cantera, di aver puntato su alcuni giovani talenti, che nel corso degli anni sono stati allevati con cura e riguardo (anche eccessivi). La Berlinale, dal canto suo, anche per le sue dimensioni enormi, ha di per sé la capacità di essere un laboratorio permanente di nuove proposte. Senza contare Locarno, che sempre più investe sugli sguardi obliqui, quelli che partono dai margini del sistema, per arrivare a toccare il cuore del cinema contemporaneo. Invece, quanti autori “nuovi” sono stati portati alla ribalta internazionale da Venezia negli ultimi anni? Il premio a Wang Bing in Orizzonti e il Leone d’Oro a Lav Diaz sembrano il punto di arrivo di un percorso iniziato anni fa, sotto altre direzioni. Mentre gli stessi Amat Escalamte e Derek Cianfrance, solo per stare al concorso principale, hanno avuto a Cannes il loro passaporto internazionale. Ora, a Venezia, questo lavoro di ricerca e scoperta sembra essere stato preso in carico dalla Settimana Internazionale della Critica, nel suo nuovo corso, che, al di là delle valutazioni sui singoli film, ha avuto il coraggio di puntare sulle prospettive più coraggiose e meno convenzionali, dal Premio opera prima The Last of Us al film vincitore della sezione, Los Nadie di Juan Sebastián Mesa. Il tutto tenuto a battesimo dal più giovane dei registi, Marco Bellocchio. Mentre le Giornate degli Autori continuano il loro percorso autonomo, con scelte anche in controtendenza rispetto alla selezione ufficiale. Specialmente per quanto riguarda il cinema italiano, su cui Venezia resta, comunque, un punto d’osservazione privilegiato. E sotto questo aspetto, le conferme e le sorprese non sono mancate. Dal Vangelo di Pippo Delbono a Liberami di Federica Di Giacomo, vincitrice della sezione Orizzonti, da Indivisibili di Edoardo De Angelis ai corti dei giovani autori ospitati dalla SIC. Senza contare le splendide meteore, come Spira Mirabilis e Luca Ferri, che, con il suo Colombi, conferma l’esistenza di altri pianeti del cinema. Anche qui avremmo immaginato altre combinazioni (pensando ad esempio a un fuori concorso per Piuma di Roan Johnson, spedito un po’ al massacro della critica più intransigente e miope). Ma tant’è. Quello che probabilmente resterà davvero di questa Venezia 73, è quello che riusciamo a leggere tra le righe del verdetto della giuria presieduta da Sam Mendes. La possibilità di pensare ancora a un cinema diverso dalla lucentezza spettacolare della macchina industriale. Che, in fondo, ci sorprende solo in quei momenti in cui riesce a sabotare se stessa, come sanno bene Mel Gibson e Antoine Fuqua. Un cinema alla Naderi, in cui l’arte ha più a che fare con l’artigianato che con lo splendore della confezione o la “correttezza” estetica degli stilisti e dei metteur en scène. Quel cinema che viene fuori dalle parole di Olmi, capace di illuminare un’intervista televisiva con la forza semplice e inarrestabile di un’idea e di una fede. Il cinema che si fa con poco, quasi con niente. Ma in cui si avverte tutta la gioia e la fatica della pratica, la precisione e la necessità di un gesto delle mani e degli occhi.

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