#Venezia74 – Brawl in Cell Block 99, di S. Craig Zahler

Assuefatti a una violenza degradata in estetiche iper-stilose e in coreografie dal manierismo anestetizzato, non possiamo che vivere l’incontro con Brawl in the Cell 99 come un risveglio

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Ormai assuefatti a storie di violenza degradate in estetiche iper-stilose e in coreografie dal manierismo anestetizzato, non possiamo che vivere l’incontro con Brawl in the Cell 99 come un risveglio da un lungo sonno. Forse un cinema autoriale, di genere, diverso è possibile? Nell’opera seconda di S. Craig Zahler non c’è spazio per rallenti su colonne sonore elettroniche o luci flou. Non ci sono satire politiche o messaggi subliminali ipocriti. Ci sono solo ossa rotte, nocche sbucciate e sangue versato. E un cuore che tracima di un sentimento puro. Andiamo con ordine, però.

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Reduce dal clamore del suo esordio western-horror Bone Tomahwk, Zahler sceglie di abbracciare un nuovo genere, il prison movie, per portare avanti una visione cinematografica di rara lucidità. Forte di un importante bagaglio culturale, il regista si diverte a unire, con coerenza, gli universi carcerari di Edward Bunker e le acrobazie ipnotizzanti del cinema del sud-est asiatico (il primo riferimento che salta alla mente è il dittico The Raid di Gareth Evans) raccontandoci una storia che non accetta mai il compromesso. Il viaggio all’inferno del gigantesco Bradley, disposto al trascinarsi nel disastro, novello Sansone, con tutti i suoi carnefici pur di mettere in salvo la propria famiglia, è la chiara metafora di un regista che punta implacabile il proprio obiettivo, spazzando via ogni ostacolo che lo intralcia. Non ha importanza che questi blocchi siano i timori di finanziatori troppo paurosi (il film, come il precedente, è una produzione rigorosamente indipendente) o le reticenze di un pubblico dal palato troppo superficiale (le decine di persone che hanno lasciato la sala veneziana sono lì a testimoniarlo). Zahler, a differenza di molti suoi colleghi, non scade nell’autoreferenziale o nell’infantile ricerca dello scandalo.

La discesa agli inferi del suo protagonista, la rassegnazione con cui il martirio è accettato, ha sfumature cristologiche nel loro essere passaggi di una convinta volontà di sacrificarsi pur di ottenere la salvezza (degli altri). Bradley, il personaggio interpretato magistralmente da Vince Vaughn, disposto a spezzare la sua immagine da comedian mainstream per prendersi sulle robuste spalle la lezione di Zahler, non è solo un’invincibile macchina da uccidere segnata da un passato che non ci è dato scoprire (da dove arriva questa forza sovrumana? come fanno i suoi colpi ad essere così mortalmente efficaci?). Bradley è, soprattutto, un uomo che ama. Ogni braccio spezzato, ogni cranio sfondato, infatti, sono continue testimonianze del grandissimo sentimento che lo guida, gesti d’affetto mandati alle sue donne lontane. Immaginiamo che sia difficile scorgere in un volto schiacciato a sangue, la tenera carezza di un uomo preoccupato per la sua famiglia, eppure non possiamo che vedere Brawl in the Cell 99 come un’opera che straripa d’amore.

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