#Venezia74 – Les bienheureux, di Sofia Djama
Il film convince prendendo di petto situazioni di fortissima valenza sociale e lasciando al fluire del montaggio il compito di mappare i sentimenti dei cinque protagonisti. Orizzonti.
Una giornata, cinque persone, la città di Algeri. Siamo nel 2008, qualche anno dopo la fine della Guerra Civile algerina che ha profondamente segnato le condizioni materiali e le coscienze intime di un popolo. Ecco: l’esordio alla regia della giovane Sofia Djama dimostra una straordinaria maturità nel far emergere questo trauma sociale (ancora vivissimo) dalle parole, dalle azioni, dalle scelte, dai timori e dai rapporti interpersonali di gente comune che vive la propria giornata. Amal e Samir sono una coppia di mezza età che decide di festeggiare in ristorante il ventesimo anniversario di matrimonio: lui è un medico che clandestinamente opera aborti, convinto eticamente di una pratica fuorilegge in Algeria; lei è una madre progressista che sogna l’emigrazione in Europa del figlio Fahim perché non crede nel futuro democratico del paese. Proprio i destini del figlio saranno oggetto di scontro tra i due coniugi, perché Samir crede in un futuro algerino che non disperda l’eredità di diritti conquistati negli ultimi decenni.
Insieme ad Amal e Samir la regista pedina lo stesso Fahim (molto scettico sui consigli della madre), il suo amico Feriel che compone musica sperimentale utilizzando versi sacri, infine la terza mica Reda: una ragazza orfana di guerra che cerca di dimenticare i propri orrori personali rivendicando una forte indipendenza dagli uomini. La città di Algeri viene attraversata in lungo e in largo come un sesto protagonista del film, disegnando una ragnatela spaziale (tra case, ritrovi, strade, ristoranti, il tutto suggellato da due panoramiche in campo lunghissimo a inizio e fine film) che crea una fitta rete di ideali rimandi interni. Certo questa è una modalità che può risultare troppo schematica nel suo “preciso” montaggio di eventi, ma è la regia che alla lunga si dimostra attenta a non far pesare queste rime interne come artificiose o didascaliche. Lo spettatore, insomma, è sempre libero di orientare lo sguardo.
E allora: i percorsi sottilmente divergenti di adulti che anelano diritti pienamente democratici e di giovani che cercano di riavvicinarsi confusamente alle radici culturali o religiose del proprio stato; uniti a figure femminili orgogliosamente (e pericolosamente) emancipate che si trovano a lottare ogni giorno contro piccoli o grandi pregiudizi manifestati all’improvviso, spesso in frasi (non) dette, riuscendo in maniera straordinaria a illuminare il presente e le radici passate di una condizione sociale (prima ancora che politica). Insomma il film convince e lascia molti “residui” di pensiero dopo la visione, proprio perché ha il coraggio di prendere di petto situazioni e percorsi personali di fortissima valenza collettiva (non solo algerina, si tratta di questioni universali), lasciando al fluire del montaggio e alla bravura degli attori il compito di fornirci i punti di vista complessi o le possibili vie di fuga da percorrere. Sofia Djama dimostra di avere una fiducia nello spettatore non comune: Les bienheureux è uno dei più interessanti esordi visti in questo Venezia 74.