#Venezia74 – Loving Pablo, di Fernando León de Aranoa

Torna Escobar: l’aspetto più inquietante, ma al tempo stesso affascinante del film sta nelle sue apparenze posticce e pacchiane che si mostrano essenziali all’immaginario anni ’80. Fuori concorso

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Ascesa, vertigine e caduta di Pablo Escobar, il più ricco, potente e spietato narcotrafficante della storia. Dopo Narcos, la serie Netflix, tornano le vicende del famigerato cartello di Medellín, stavolta però raccontate da un punto di vista femminile, quello di Virginia Vallejo, nota giornalista della tv colombiana, amante di Escobar proprio negli anni più infuocati della guerra al narcotraffico. Loving Pablo, Hating Escobar è, difatti, il titolo del libro in cui la bella Virginia ripercorre la sua storia d’amore, dal primo incontro a un party organizzato dal boss fino alla tormentata collaborazione con la DEA, la Drug Enforcement Administration, l’agenzia federale antidroga degli Stati Uniti. Anni di lusso sfrenato, passione, danaro, ma anche di guerra, terrore, solitudine. Nel momento in cui si apre la guerra tra Escobar e il governo colombiano di Belisario Betancur, che schiererà l’esercito supportato dai servizi segreti americani, la Vallejo si ritrova alle strette, minacciata di morte da tutti, scacciata dalla tv e impossibilitata a trovare lavoro altrove. Fino alla fine dell’incubo.

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pablo2Loving Pablo apre e chiude su Virginia Vallejo/Penélope Cruz, coerentemente. Ma, a dispetto del titolo e dell’ispirazione, non sono né la “storia d’amore” né il personaggio della giornalista il centro del film di Aranoa, che relega tutta la “questione mélo” in secondo piano, per concentrarsi sulla titanica personalità di Escobar e la spirale di violenza innescata dai suoi traffici. Quindi sull’azione più adrenalinica e sovraeccitata, che se da un lato sembra aspirare ai modelli americani newhollywoodiani, dall’altro appare filtrato attraverso le maglie grosse di uno stile televisivo e sovraccaricato. A voler essere più precisi è se il film di Aranoa vivesse di ispirazioni e frammenti eterogenei. Come intenzione ricorda Hemingway & Gellhorn di Philip Kaufman (anche quello splendidamente esagitato). L’inizio è infuocato, con il cavallo investito dalla motocicletta, lo zoo in giardino, il fisico debordante di Javier Bardem, che sembra sempre sul punto di esplodere e collassare. Poi tutto si fa cupo e schizofrenico e in più di un’occasione viene da pensare al Placido delle guerre criminali. Ma poi, nelle soluzioni visive, il film ripiega in una specie di mainstream universale, in una sorta di esperanto estetico buono per ogni paese e ogni conflitto.

Ecco, l’aspetto più inquietante, ma al tempo stesso affascinante di Loving Pablo sta nelle sue apparenze posticce, nella sua finzione smaccata, aperta, dichiarata sin dalle prime immagini sull’aeroplano. L’effetto digitale pacchiano, il trucco in bella vista: l’impalcatura e i tubi innocenti ricoperti malamente da tele cerate ingombranti, che al primo movimento scomposto lasciano intravedere l’intelaiatura sottostante… Segni di una follia produttiva, che trova la sua vertigine massima nell’inglese impossibile parlato dai personaggi, una specie di lingua creola intessuta da intercalari e improperi in spagnolo. How are you, mi amor… “Cadenza colombiana” di una lingua reinventata, da immigrati. Ma dopo lo shock iniziale, a lungo andare, tutte queste scelte apparentemente fuori misura si mostrano essenziali a quest’immaginario anni ’80 inseguito da Aranoa, con tutti i suoi estremi kitsch, i suoi colori improbabili e sgargianti, che si mescolano al rosso del sangue e alla polvere della storia.

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