#Venezia74 – Manuel, di Dario Albertini

L’esordio alla regia del regista romano, nella sezione Cinema nel Giardino, segue il percorso di Manuel, un ragazzo semplice ma gigante che comincia da capo e impara a respirare

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L’arte di respirare. Lontana dall’essere un atto istintivo, pure scontato, l’azione di prendere aria e poi buttarla fuori nel modo e nel momento giusto, può diventare una vera sfida, soprattutto quando si ha troppa consapevolezza del fatto che non possiamo vivere senza aria e che tutto può finire in un sospiro. Il cinema è in se stesso un paradosso vitale: non è vivo, ma respira. È anche fatto di sospiri, di flusso, di momenti senza fiato e altri di vuoto assoluto: la comunione con lo spettatore dipende, in gran parte, di quanto essi abbiano presso il ritmo della respirazione del film e si permettano di lasciarsi andare, sapendo che l’aria non gli mancherà mai.

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Il protagonista di Manuel – lungometraggio esordio del regista italiano Dario Albertini, presentato nella sezione Cinema nel Giardino a Venezia 74 – sta imparando a respirare. Oppure, si prepara per il momento in cui perderà il fiato e dovrà trovare un modo per recuperarlo. E dal primo momento, noi respiriamo con lui. Insieme al protagonista Andrea Lattanzi il film segue il percorso del diciottenne Manuel nella sua ricerca d’aria fresca, dopo essere uscito da un istituto minorile dove è stato rinchiuso per gran parte della sua vita. Adesso si trova nel mondo “reale”, deve prendersi cura di se stesso e anche della madre (Francesca Antonelli): vuole farla uscire del carcere e portarla a vivere con lui, sotto detenzione domiciliare.

Dopo il suo documentario “La Repubblica dei Ragazzi” (2015) – sulla nascita di una

manuel (1)struttura nel dopoguerra che aiutava giovani privi di sostegno familiare –  Albertini sceglie la storia piccola di un ragazzo comune che in realtà, può diventare straordinario. Proprio come il suo film. Più che fissarsi sulla fine del viaggio, il regista si concentra sull’attesa di Manuel, nei tempi “morti”, nei momenti in cui lui si rende conto che la sua vita si costruisce di frammenti, di attimi, di ogni inspirare ed espirare. In un certo senso, Manuel nuota controcorrente e segue un percorso alla rovescia: invece di uscire della matrice per affrontare il mondo esterno, lui si muove verso la fonte materna – forse un ritorno, forse un luogo che non ha mai conosciuto – dove diventerà il guardiano di una madre che non può prendersi cura di se stessa.

Cosciente di questo destino, Manuel approfitta del viaggio per uscire in superficie e prendere un po’ d’aria, prima dell’immersione totale. Nel suo percorso, trova delle persone che diventano dei fari e gli fanno vedere diversi modi di respirare: un barbone sorridente che riprende il fiato ballando, una ragazza aspirante attrice che si riempie d’aria quando guarda negli occhi delle persone che aiuta, un vecchio che trova pace nella cura delle piante, un panettiere che dopo avergli offerto lavoro, rivela a Manuel il suo segreto per andare avanti senza perdere il fiato: Passione, ritmo, attenzione.

Mentre il film segue il suo proprio ritmo, l’attenzione su Manuel non si perde mai, proprio perché lui diventa ogni volta più grande e perché, a un certo punto, staccarsi dal suo respiro diventa impossibile. Stabilire se l’esordio di finzione di Albertini sia un film grande o piccolo, una sorpresa o soltanto un bell’inizio, non sembra così urgente; il film, come il suo protagonista, porta con sé la bellezza della scoperta, della freschezza, del flusso naturale. E allo stesso tempo, la promessa di diventare qualcosa di straordinario.

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