#Venezia74 – Mektoub, My love: Canto Uno, di Abdellatif Kechiche

Kechiche filma un altro coming of age, ambientato nell’estate del 1994, e come al solito fa un film seducente ma molto meno audace e intenso di quanto si creda. In concorso

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Per oltre un secolo abbiamo scritto e detto che i generi cinematografici più fisici erano sostanzialmente due: l’horror e il porno. Da qualche anno dobbiamo probabilmente aggiungere una terza categoria, una sorta di sottogenere ad personam: il “genere” Kechiche. È un tipo di cinema particolare il suo perché ti fa credere tutto fuorché di vedere un film di “genere”. Apparentemente è fondato su una libertà espressiva e narrativa assoluta. Le sequenze si dilatano fino alla saturazione con tempi morti e accelerazioni verbali, la macchina da presa sta attaccata ai volti e ai corpi dei personaggi e l’esperienza fruitiva diventa una sorta di flusso voyeuristico e minimalista allo stesso tempo. Lo spettatore è dentro alle relazioni che vede sullo schermo, alle immagini, ai personaggi, alle forze che il regista franco-tunisino riesce a predisporre sul set. Non è proprio un’esperienza emotiva, né tantomeno mentale. Ma in primo luogo percettiva. Nel cinema di Kechiche non conta nient’altro che quello che si vede e si subisce. L’occhio dello spettatore non ha molta possibilità di andare oltre l’immagine, non può appoggiarsi a dei punti di fuga, deve solo vedere quello che si mostra. Tutto è costruito – con maestria innegabile, questo è certo – per farci entrare in un mondo, che simula apertamente il tempo della vita. Eppure come scriveva Aldo Spiniello a proposito de La vita di Adèle, non c’è spazio alcuno per l’imprevisto, per la casualità della vita. Mektoub My Love non fa eccezione, anzi. Dopo sei film i topoi sono riconoscibilissimi. E nonostante il finale aperto, prerogativa anche del film precedente, l’immagine è soprattutto traccia di un metodo che soverchia la luce – la lumiere citata all’inizio dai passi della Bibbia e del Corano, che pure qua e là emerge a battezzare il quadro.

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mektoub-my-love-canto-uno-recensione-del-film-che-diviso-venezia-74-recensione-v4-34905-1280x16Kechiche adatta insieme a Ghalya Lacroix il romanzo La blessure la vraie di François Bégaudeau e racconta gli incontri, i divertimenti e le confessioni di un gruppo di giovani franco-tunisini in una località marittima del sud della Francia nell’estate del 1994. Mektoub My Love è il suo, ovviamente molto poco rohmeriano, racconto d’estate. Da talentuoso e “cinico” cineasta immigrato Kechiche ha il desiderio morboso di appropriarsi della grande tradizione francese flaubertiana dell’ Educazione sentimentale per plasmarla con i suoi close-up ostentatamente pornografici sulle forme dei corpi soprattutto femminili: i culi, i seni, le bocche… e ancora i culi, inquadrati ossessivamente soprattutto nelle scene musicali, nei balli, nella danza. In filigrana emerge la celebrazione di un eden perduto, la possibilità, oggi messa in crisi dagli estremismi islamici e nazionalisti, di un’integrazione sensuale e antropologica tra i due mondi. Quasi il coming of age illuminato di un edonismo pre-11 settembre.

Detto questo, come al solito Kechiche fa un film seducente ma molto meno audace e intenso di quanto si creda. I corpi e le “forme” che filma, la giovinezza che vampirizza, diventano funzioni quasi irrinunciabili per il suo cinema, che rimane soprattutto di epidermica superficie. Il che non è neppure necessariamente un male. La cosa interessante è che così facendo un film come Mektoub My Love, anche se generato da un apparato produttivo autoriale ed “europeo”, non è così diverso da un qualsiasi blockbuster hollywoodiano, tutto giocato su pulsioni, amplificazioni e reazioni epidermiche. È un crinale imprevisto e persino ambiguamente di “consumo”. Come del resto la classificazione seriale del progetto indica apertamente. Qui siamo (solo) al Canto Uno.

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