#Venezia74 – The insult, di Ziad Doueiri

In Concorso, il cineasta libanese conferma la sua capacità di tenere insieme il racconto di tensioni e problematicità della sua terra con una confezione popolare attenta alle strutture di genere

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Doueiri è un cineasta che per raccontare tensioni e criticità del suo Libano ha l’abitudine di divertirsi a giocare con le formule del cinema spettacolare – vista la sua gavetta ad Hollywood, e soprattutto un certo successo popolare delle sue regie come West Beyrouth, Lila dice, The attack.
Qui il regista affronta il canone del genere legal, procedurale, per portare alle estreme conseguenze l’apologo sulla difficile convivenza tra palestinesi e libanesi tra le vie di Beirut: basta una scaramuccia tra un capomastro palestinese e un convinto sostenitore locale del Partito Cristiano, per una grondaia che sporge da un balcone, a scatenare una battaglia a suon di querele, processi, e corti d’appello – le fazioni diventano sempre più nutrite e accese, si attiva l’interesse della politica e dei media, fino a sfiorare il ritorno ad una tensione da vera e propria guerra civile, con le “armate” schierate da un lato e dall’altro, prime intimidazioni, la paura e il pericolo che si insinuano nelle vite familiari dei due contendenti.

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L’adesione alla struttura del genere, con i colpi di scena e i rovesciamenti sul favorito agli occhi dei giudici, le prove presentate a sorpresa e le arringhe ad effetto degli avvocati, permette a Doueiri di alzare al livello di ebollizione la quantità di rivoli narrativi e testacoda morali a cui viene sottoposto il giudizio dello spettatore: è così che la contesa tra i due uomini diventa una maniera per indagare non solo il presente libanese ma tutto un Passato recente che difficilmente viene a galla anche nella memoria comune.
Per funzionare, un impianto così sovraccarico ha bisogno di poggiarsi sull’efficacia degli interpreti, e come sempre il regista è in grado di costruire figure pazzescamente verosimili ed empatiche, anche nelle loro scelte meno istintivamente condivisibili: qui non sono soltanto le due coppie in opposizione a restituire la luce dell’umanità (oltre ai due protagonisti maschili, le rispettive clamorose controparti femminili), ma tutto l’apparato di amici, fratelli e genitori, fino ai due avvocati – padre e figlia – che si sfidano in tribunale.
Doueiri è attento alla costruzione di ognuna di queste figure, i primi piani mantengono la stessa importanza delle scene aeree, quelle di massa in giro per la città, queste ultime malauguratamente fasciate da musiche davvero troppo ingombranti.

Nonostante gli scontri in aula contribuiscano a mantenere alto il ritmo del racconto anche nelle svolte fuori misura, dispiace un po’ perdere la grande capacità di Doueiri di girare nel quartiere, di infilarsi per le vie di Beirut ad inseguire l’esplosivo affastellarsi del caos quotidiano: la sequenza iniziale con la radiosa Rita Hayek che raggiunge a piedi l’officina del marito è un istante pulviscolare da contrapporre poi al buio che sembra calare sulle case e sulle vite dei protagonisti, una volta dato il via al duello a distanza e al faticoso percorso per una riconciliazione che sembra preferire i gesti minimi, silenziosi, simbolici alle fanfare elettorali delle messinscene istituzionali.

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