#Venezia74 – Woodshock, di Kate e Laura Mulleavy

L’opera prima delle sorelle Mulleavy è un film molto strano, psichedelico, ostenatamente depressivo e piuttosto confuso

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Le sorelle Mulleavy, Kate e Laura, sono diventate famose nel 2005 per aver fondato Rodarte, un brand di abbigliamento e accessori che ha fatto subito man bassa di premi e attenzioni nell’ambiente della moda e del design. Era quindi prevedibile che il loro esordio alla regia, ma in questo caso sono anche sceneggiatrici, si segnalasse soprattutto per un gusto visivo e un’attenzione allo stile fuori dalla norma. E sin dalle prime immagini Woodshock esprime tutta la sua carica visionaria, con evidenti influenze da un cinema sperimentale anni 60, ambizioni alla Nicholas Roeg rimasticate da atmosfere alla Sofia Coppola prima maniera. Il tutto è ovviamente facilitato dalla presenza di Kristen Dunst, che della Coppola è una sorta di musa fin dai tempi de Il giardino delle vergini suicide, in tutta evidenza uno dei film preferiti dalle due autrici. Ma la Dunst in Woodshock è ben più che un interprete, come dimostra ampiamente il suo coinvolgimento come produttrice esecutiva, e impregna tutto il film di quella melancholia vontrieriana, che alcuni anni fa le valse un meritato premio al Festival di Cannes. Forse è lei la terza autrice di questa opera prima stramba e sostanzialmente ingiudicabile. Qui interpreta Teresa, una donna specializzata nel creare un mix letale di marjuana e una sostanza ignota con cui aiutare alcuni malati terminali a porre fine alle loro sofferenze. Nel prologo scopriamo che ha contribuito anche al suicidio della madre e forse da allora non si è mai ripresa del tutto. Deciderà anche lei di porre fine alla sua vita?

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Scorribande notturne nei boschi, lievitazioni, sogni, alterazioni percettive, la Dunst espone a più riprese il suo corpo tanto giunonico quanto intossicato allo sviluppo antinarrativo imposto dalle Mulleavy, cui di sicuro non manca la presunzione. Ne viene fuori un film molto strano, psichedelico, ostenatamente depressivo e piuttosto confuso. Come collage di videoclip l’esperienza percettiva potrebbe anche incuriosire, anche perché tecnicamente il film è pregevole e si avvale di lussuosissime collaborazioni, tra cui quella dello scenografo K.K. Barrett (Marie Antoinette, Nel paese delle creature selvagge, Her). Ma come riflessione sul dolore e sul male di vivere il film è assolutamente inesistente, prigioniero di una superficie troppo cool per essere realmente sincera. Le Mulleavy hanno davvero qualcosa da dire? Il sospetto è di trovarsi  già davanti a un film sulla depressione brandizzato.

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