#Venezia75 – A Star Is Born, di Bradley Cooper

Grandissimo esordio alla regia dell’attore statunitense in questa quarta versione con una prova indimenticabile di Lady Gaga. Non è Cukor ma ci manca pochissimo. Fuori Concorso

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“Volevo guardarti ancora una volta”. Jackson Maine rivolge due volte questa frase ad Ally. Ogni volta sembra essere un addio definitivo. O un nuovo incontro. Il protagonista è un cantante  come Kris Kristofferson nella versione del 1976 diretta da Pierson. Ma l’anima invece è da vecchio mélo hollywoodiano. I modelli di questo straripante esordio alla regia di Bradley Cooper sembrano però essere principalmente Wellman e Cukor. Il primo per il modo di mostrare la caduta come sinonimo di morte, il secondo per l’uso della luce e del colore. Nel capolavoro del 1954 la chiave era quasi espressionista, in questa nuova rivisitazione sembra invece di trovarsi dentro quei fasci cromatici di un film anni ’80. Si, l’anima di A Star Is Born è da mélo classico. Che si fonde con le ipnosi di un grande film-concerto con gli effetti dei rossi di Adrian Lyne e Walter Hill. Perché, per come sta stare sul palco, questo è il suo Streets of Fire. E non importa che doveva essere Clint Eastwood inizialmente a dirigerlo. Che ne avrebbe fatto sicuramente un altro grande film. Quello che seduce, cattura e poi commuove è la mano sicura di Bradley Cooper regista, che sembra essere al quinto o sesto film e non all’esordio.

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Ancora una caduta. Quella di Jackson Maine, un cantante di successo sul viale del tramonto che ha il vizio dell’alcool e problemi all’udito. Un passato difficile, un rapporto conflittuale ma pieno di affetto col fratello (Sam Elliott). Poi una sera, dopo un concerto, si ferma in un locale di drag-queen e viene colpito dalla voce di Ally. Da quel momento si frequentano. Lui le da la possibilità di mostrare a tutti il proprio talento. Al tempo stesso però la sua carriera è in discesa.

Lo diciamo senza vergogna. A Star Is Born ci ha devastato. Perché è scritto benissimo; tra gli sceneggiatori c’è anche Eric Roth, lo stesso di Forrest Gump, Insider e Il curioso caso di Benjamin Button. Perché ama la sua protagonista senza pudore. È un atto d’amore nei confronti di Lady Gaga. Proprio come quei registi che girano lo stesso film con la stessa attrice. Ma anche spietato. La scena della premiazione ai Grammy ha una crudeltà incontrollata, proprio da parte di Cooper nei confronti del suo stesso personaggio. Che si vede anche nel dialogo in cui Jackson dice ad Ally che è diventata brutta.

Pieno di magie A Star Is Born. Dalla prima notte passata insieme, al concerto dove si esibiscono insieme per la prima volta quando cantanto Shallow. Bradley Cooper e Lady Gaga sono come Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon in Walk the Line. La coppia sul palco, in entrambi i film, è da brividi. Lì Mangold trascendeva la leggenda di Johnny Cash. Qui Cooper riaggiorna il mito di A Star Is Born al cinema, mantenendo il cognome del protagonista, come nei personaggi interpretati da Fredric March nella versione del 1937 e James Mason in quella del 1954.

Inoltre Cooper è uno dei rari attori che sanno convivere con gli altri personaggi sullo schermo. Non solo non si mangia la scena ma sa farsi da parte per far risaltare le doti di un altro attore. Mantenendo sempre trasparente la sua presenza. Lo aveva già fatto con Jennifer Lawrence in Il lato positivo e con Zach Galifianakis soprattutto nel secondo e terzo Una notte da leoni. E qui lo fa con Lady Gaga e Sam Elliott. Non è solo un fatto di regia. Non è solo un metodo. È un istinto. E in A Star Is Born, essendo dietro la macchina da presa, si vede come sa valorizzare gli altri. A cominciare da Lady Gaga che offre una prova indimenticabile. Nelle sue metamorfosi fisiche. Il finale, stravolgente, è tutto per lei. C’è il desiderio, impossibile, di chiedere un altra canzone per far allungare il concerto. E lì dentro ci sono tutti i frammenti della loro storia. “Volevo guardarti un’ultima volta”. Il mélo qui non ha età. Non è Cukor ma ci manca pochissimo.

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