#Venezia75 – American Dharma, di Errol Morris

Morris intervista Bannon. Un film lucidissimo, mai banalmente inquisitorio e sempre rispettoso e corretto nei confronti del suo interlocutore-avversario. Il cinema classico è il referente primo…

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Siamo nell’era di una de-realizzazione dello scontro militare, in cui l’oggetto viene soggiogato dalla sua immagine, in cui il tempo ha la meglio sullo spazio e la rappresentazione degli eventi domina sulla presentazione dei fatti”. – Paul Virilio (Guerra e Cinema)

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In uno dei saggi cardine per comprendere ogni salto di paradigma nella percezione delle immagini tra il XX e il XXI secolo, il filosofo francese Paul Virilio individia nelle informazioni (e nell’approvvigionamento delle stesse) le più importanti “armi” del futuro (ormai presente…). Sempre di più “i media diventano il messaggio” ci dice Steve Bannon con mcLuhaniana consapevolezza. E del resto il cinema di Errol Morris, da The Fog of War a The Unknown Known, si è sempre dimostrato consapevole di quanto il cortocircuito tra ideologia, politica e mass-media fosse il focus privilegiato per testimoniare ogni evento novecentesco. Chiaro che se ci si sposta su fenomeni più legati al nuovo millennio (l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca, la proliferazione di una “internazionale populista”, il pericolo globale delle fake news) questa riflessione assume caratteristiche ancor più radicali. E allora: intervistare l’ideologo del neo-populismo di destra, il creatore di Breitbart ed ex primo consigliere privilegiato del Presidente degli Stati Uniti, significa innanzitutto immergersi nella contemporaneità per tentare di (far) maturare un pensiero critico libero da qualsiasi pregiudizio. Come?

Partiamo da un presupposto: l’ascesa politica dell’uomo d’affari e di spettacolo Donald Trump – prima come corpo estraneo al Partito Repubblicano e poi come cavallo vincente per le presidenziali – è contrappuntata da una lenta e inesorabile conquista dei campi di percezione del XXI secolo: la rete, i social, l’informazione alternativa virale, insomma un avvolgente involucro mediale che inabissa le vecchie retoriche degli avversari (interni o esterni che siano) bypassando i media tradizionali (stampa e Tv) rendendoli anch’essi “schiavi del sistema”. Bannon concepisce Breitbart come il tempio del populismo 2.0, un sito dove coltivare e diffondere un’ideologia che ha bisogno prima di tutto di un nemico privilegiato (l’establishment, le élite, i mondialisti, i globalisti, e via di neologismi sempre più vaghi e dalla facile connotazione negativa) creando pian piano una internazionale populista che divenga conseguentemente politica attiva. Governo. La costruzione di una forte ideologia (“una fede…”) trasformata in azione politica (“una rivoluzione…”). Bannon è un fine oratore, è partito da Harward e ha fatto parte per decenni di quella élite culturale e finanziaria che ora vuole incenerire, quindi sa perfettamente dove puntare i suoi cannoni virtuali.

E Morris? Il regista di The Fog of War – adorato da Bannon che lo cita come fonte di ispirazione per come concepire i discorsi per immagini – traccia subito il suo perimetro d’azione e lo enuncia chiaramente al suo interlocutore: esiste un Bannon positivo e uno negativo. Il primo che sottolinea i forti squilibri nella distribuzione della ricchezza mondiale, denunciando le derive del potere finanziario e prendendo il 2008 come anno spartiacque del nostro instabile assetto geopolitico. Il secondo è quello che propone soluzioni “spaventose” aizzando la rabbia delle masse, fiancheggiando indirettamente gli inaccettabili moti di Charlottesville e progettando la distruzione totale dell’assetto istituzionale per rifondare nuovi fantomatici equilibri. In questo paradigmatico percorso di vita si rispecchiano tante riflessioni sul nostro presente: “Io ho votato Hillary Clinton non perché ne fossi convinto, ma perché ho paura di voi, siete dei pazzi” gli dice Errol Morris. Bannon controbatte ironicamente “non ci credo che il regista di The Fog of War possa aver votato per Hillary!”. Insomma al populismo che instilla paure incontrollabili (alta tensione sull’immigrazione, guerre dei dazi, troll social) si contrappongono i resti del mondo liberal (in totale smarrimento identitario) che a sua volta vota per paura candidati bocciati dalla storia. Nel 2016 l’85% degli americani non era convinto di nessuno dei due candidati, “ma se sei scontento di entrambi finisci per votare per il cambiamento, era matematico che avremmo vinto“, dice Bannon.

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Ed è qui che il film Morris opera uno scarto lucidissimo: se le immagini sono il campo di battaglia dove si consumano le guerre del XXI secolo, allora il cinema non può che diventare la referenza più importante da cui attingere. Steve Bannon è ossessionato dal cinema classico hollywoodiano e lo assume come sponda costante per spiegarci le sue intenzioni: se la chiesa in costruzione nel finale di Sfida infernale di John Ford rappresenta la nascita di una comunità che si identifica con i suoi simboli, allora Breitbart deve diventare una comunità digitale in cui riconoscersi e trovare casa; e poi, la determinazione e l’individualismo di John Wayne in Sentieri Selvaggi deve dare l’esempio per controbbattere le accuse di razzismo o xenofobia. Ma è soprattutto Cielo di fuoco di Henry King a diventare il testo cardine per Bannon: il generale interpretato da Gregory Peck instaura una rigida disciplina basata sull’American Dharma (fede, destino, fiducia nell’eccezionalismo americano). Insomma Bannon sa perfettamente che ispirarsi all’immaginario del cinema classico significa rifarsi allo speaker principe dell’american way of life, un collante sociale potentissimo. Ed è abbastanza astuto da interpretare i miti popolari in maniera ampiamente strumentale: non cita il finale di Ombre rosse dove Dallas e Ringo lasciano la civiltà dominata dai pregiudizi; non cita il meraviglioso finale di Sentieri selvaggi dove ogni certezza incrollabile di Ethan Edwards si ridiscute nell’incontro con l’Altro; non cita la profonda crisi umana del generale Savage nel finale di Cielo di fuoco. Morris, allora, controbatte con parole (molto poche) e con immagini (molte di più), perché sa benissimo che la retorica di Bannon va contrastata con le sue stesse armi. Le inquadrature dei film citati balenano e dialogano con il volto in primo piano di Bannon creando raccordi ideali e improvvise crepe: basterebbe il primo piano prolungato di John Wayne/Ethan Edwards per ridiscutere ogni certezza sbandierata. Per arrivare alla vertigine: il faccia a faccia tra i due avviene in una ricostruzione fedele del set di Cielo di fuoco, una trovata magnifica che ci fa percepire uno spazio alternativo, infuocato, costruito con la stessa materia del cinema. Uno spazio immaginario dove le tracce del nostro futuro si impastano con la fiction del nostro passato creando l’ambiente mediale adatto per testimoniare il nostro presente…

Eccoci al punto: tra il cinema classico hollywoodiano e i titoli delle più importanti testate giornalistiche americane che bombardano il primo piano di Bannon; tra i commenti social sempre più estremi e i video di di Trump sempre più assertivi; tra il primo piano scultoreo di Gregory Peck e quello sardonico di Bannon che lo imita… il film orchestra uno stratificatissimo tessuto intermediale che tende a bilanciare la retorica apocalittica e seducente di Bannon. Insomma Morris crea il suo villain perfetto – come il lucifero di Paradiso Perduto di Milton, un paragone che diverte molto Bannon – e contrappone alla retorica populista la retorica del cinema popolare (dal post-apocalitico al disaster movie…). American Dharma è una delle vette del cinema di Morris. Un film lucidissimo, mai banalmente inquisitorio e sempre rispettoso e leale nei confronti del suo interlocutore-avversario. Un film che ha il coraggio di immergersi nei più urgenti quesiti contemporanei per produrre pensiero ben oltre la sala: cosa resta in piedi dopo la fine di Cielo di fuoco? Cosa resta in piedi dopo l’apocalisse disegnata da Steve Bannon? Altre immagini, ci dice Morris, che devono far riflettere.

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