#Venezia75 – At Eternity’s Gate, di Julian Schnabel

Il biopic di Schnabel su Vincent Van Gogh è un film di troppa regia mentale e poca materia. In concorso.

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Le mystère Van Gogh. Come può il mezzo di riproduzione (cine)fotografica raccontare la pittura, o addirittura la visione e la percezione di un’artista? Se lo chiedeva già 60 anni fa Henri-George Clouzot in Il mistero Picasso. Allora il cineasta francese optava per una scelta documentaristica che filmava lo stesso Picasso nell’atto di trasformare una tela bianca in una sua opera. Oggi al cospetto di Vincent Van Gogh Julian Schnabel sceglie di plasmare un biopic molto stilizzato che fonde l’aneddotica narrativa con l’estetica visionaria, prendendo spunto direttamente da alcuni capolavori del pittore olandese. “L’unico modo di descrivere un’opera d’arte è fare un’opera d’arte” dice del resto il regista stesso, che qui torna a cimentarsi nel film biografico autoriale dopo Basquiat e Prima che sia notte. Da qui la scelta di usare la macchina da presa come fosse un pennello e cercare di riprodurre visivamente i velocissimi impulsi mentali e percettivi che muovevano la pittura di Van Gogh. “Dipingi troppo velocemente, i tuoi dipinti sembrano più opera di uno scultore” dice Gaugin a Vincent. Schnabel cerca di trasmettere cinematograficamente questa velocità di “visione”, soprattutto il rapporto tra natura, ambiente e l’essere umano Van Gogh. La ricezione dei paesaggi, della luce. Ma anche la sofferenza per una pittura innovativa e incompresa.

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Non è un caso quindi che At Eternity’s Gate si concentri solo sugli ultimi quattro anni di vita del pittore, quelli più intensi e creativi. Abbiamo l’incontro parigino con Gaugin nel 1886, da cui scaturirà un’amicizia controversa, il soggiorno ad Arles, la follia, il taglio dell’orecchio, la degenza al nosocomio Saint Rémy, e la morte per un colpo d’arma da fuoco nel 1890. Schnabel, autore anche della sceneggiatura, riflette sull’opera del pittore rielaborando carteggi, studi e sposando persino teorie antiaccademiche sulle cause della morte, avvenuta qui non per un suicidio, come sempre raccontato dagli storici, ma per mano di due ragazzi (lo ipotizza il libro Van Gogh The Life pubblicato nel 2011).

Messi da parte i precedenti adattamenti cinematografici di Vincent Minnelli e Maurice Pialat, quella di Julian Schnabel è un’operazione che mostra problemi e affoga nella sua ambizione. La scelta di rinunciare all’agiografia istituzionalizzata è ammirevole, ma viene portata avanti solo in parte. È un film fatto di troppa regia mentale e poca materia e, persino, di qualche contraddizione stilistica. Nel raccontare la follia dell’artista si affida prevalentemente alle parole, all’accumulo di voci che rimbombano nella testa. Quando si tratta di portare avanti il racconto emotivo e la riflessione artistica il film si impantana e si scopre improvvisamente bisognoso di lunghi dialoghi e scene didascaliche – le conversazioni con il medico, il prete, l’amico Gaugin. A quel punto diventa un cinema di primi piani e dissolvenze, che finisce con il danneggiare anche la convinta interpretazione di Willem Dafoe. At Eternity’s Gate sembra un’opera più pensata che vissuta nella pelle. Gradualmente trapela un’insicurezza che affatica il progetto. E dietro l’ostentazione dei controluce, dei fuori fuoco, di soggettive e inquadrature mosse e sghembe il film di Schnabel tradisce in verità una sfiducia quasi patologica nei confronti dell’immagine e della sua potenza simbolica.

 

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