#Venezia75 – Capri-Revolution, di Mario Martone

Il cinema organico di Martone davvero respira e vive. Inventa la luce grazie all’energia interiore delle cose. E fa dell’utopia un gesto quotidiano. La Rivoluzione siamo noi, come diceva Beuys

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“La rivoluzione siamo noi”, dice a un certo punto Seybu, l’affascinante ispiratore della comune di artisti e giovani che vivono tra le montagne di Capri all’alba della prima guerra mondiale. Ma La Rivoluzione siamo noi è, soprattutto, la straordinaria affermazione/opera di Joseph Beuys, una fotografia a grandezza naturale in cui l’artista si incammina verso di noi e ci chiama alla marcia. Per essere, con lui, artisti e rivoluzionari. Oltre il terzo, il quarto, il quinto Stato. E al di là dello spunto storico della comune creata a Capri dal pittore Karl Diefenbach, tra il 1900 e il 1913, è Beuys il vero spirito guida di Capri-Revolution. A cominciare dallo stesso titolo, che si rifà a un’altra sua opera-performance, Capri-Batterie, un arcano e splendido circuito in cui una lampadina si illumina grazie all’energia di un limone.

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Beuys, il “verde”, che piombava a Napoli, nella galleria di Lucio Amelio, con il suo immancabile cappello di feltro, perché grazie alle coperte di feltro delle tribù tatare si era salvato, dopo essere precipitato col suo bombardiere dai cieli incendiati dalla guerra. Beuys che era una specie di filo conduttore tra le energie della terra e l’iperuranio delle idee e dei progetti utopici. Che dissolveva l’evidenza della sua opera d’artista nella consistenza primitiva delle cose, nella fusione con la materia concreta, nel gesto della performance, nella partecipazione creativa di noi “spettatori”, chiamati a dar vita a una foresta di querce, al principio del nuovo mondo. Tra un tempio greco e un albero di ulivo non c’è differenza. Entrambi riconoscono la necessità e la bellezza della presenza dell’altro, come in simbiosi perfetta. Compassione… All’origine, l’opera dell’uomo organica alla natura. Sogno a cui sarebbe tornato in qualche modo Wright, prima e ancor più dopo il massacro di Taliesin. Ma compassione vuol dire anche essere aperti agli altri, disposti ad accogliere, ad abbracciare. Senza più cesure e distinzioni. Ritrarsi per far posto e condividere così lo spazio abitabile. Scomparire per riapparire. Come l’isola di cui parla Fabrizia Ramondino. Reale e immaginaria al tempo stesso. Perenne mutaforme, a secondo del punto di incidenza dello sguardo, della traiettoria dell’incontro. Pensiero meridiano.

Sì, la forza travolgente del nuovo film di Martone è in questa sua capacità di cambiar forma in mdo incessante, che è segno della sua intima umiltà, nonostante la necessaria ambizione dello sforzo creativo. È nella sua volontà di farsi cinghia di trasmissione tra il passato e il presente, tra le idee in battaglia e le classi sociali, il locale e il globale, il biologico e l’industriale, il selvatico e l’evoluto, la radice mediterranea e l’invasione nordica. Martone, come Beuys, tramuta il testo in un processo evolutivo, smantella la struttura pesante del film, di ogni film, per farla aderire alla conformazione della nostra stessa terra, che racconta come pochi, dagli strati superficiali a quelli più profondi. Non la semplice bellezza del paesaggio che si inerpica tra il mare e il cielo, ma lo spirito che lo abita e lo modella, quello in cui mi riconosco. Il cinema organico di Martone davvero respira e vive. Inventa la luce grazie all’energia interiore delle cose. Passa dal quotidiano all’esoterico, dal razionalismo al mistico, dall’antropologico al filosofico. Trova il punto d’incontro tra la didattica rosselliniana, la pittura della fotografia di Michele D’Attanasio – quei grumi di colore che inventano la densità fibrosa del mare – e il teatro delle sue origini. Corpi e voci danno vita al quadro, lo accendono di punti di intensità variabile. Lo muovono, al pari della terra che trema e fa vibrare in un colpo solo tutti i sismografi. Qui si ricuce, finalmente, lo strappo tra l’avanguardia e il mondo intorno. In fondo, il dramma dei carbonari di Noi credevamo o del giovane favoloso si spiegava con il loro essere fuori tempo, in anticipo sul secolo oppure ai margini delle magnifiche sorti e progressive. La pastorella Lucia, invece, incarna e inventa il tempo. Da donna, assorbe tutti gli umori della terra e si integra al suo ciclo. Così come assorbe le idee e i saperi, impara in uno stacco di montaggio la lettura, l’inglese, la moda, la magia. Fino a oltrepassare i conflitti la rigidità delle posizioni, delle divisioni, dei generi e dei confini, con l’urgenza del suo movimento continuo, scia d’amore e libertà. Lucia è la rivoluzione. Perché vive sé stessa come una rivoluzione permanente. Come creazione e intenzione. L’utopia è un gesto quotidiano.

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