#Venezia75 – Il banchiere anarchico, di Giulio Base

L’opera morale di Pessoa è trasposta con cura maniacale sullo schermo da Giulio Base che riduce la scena da una composizione teatrale

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La riflessione sul potere e sulla sua natura libera da qualsiasi condizionamento, che è il baricentro del film Il banchiere anarchico, Giulio Base, che assume si di se il doppio ruolo di regista e attore, la apre con la citazione pasoliniana (Nulla è più anarchico del potere, il potere fa praticamente ciò che vuole). La frase, nella sua inconfutabile perfezione, riassume non solo il pensiero del poeta friulano, ma anche la vanità di ogni conflitto che possa mutare l’ordine (quasi) naturale delle cose. In questo senso l’universo orrendo di Salò, costituisce forse lo sviluppo migliore di questa lucida sintesi verbale.
Lo scritto di Ferdinando Pessoa portato in scena da Giulio Base, alla luce di quello stringente pensiero, costituisce una variabile possibile, ma piuttosto un miraggio irraggiungibile, adattandosi così ad una godibile riflessione filosofica, mirabile soprattutto per la convincente analisi e la razionalità della costruzione.
L’anarchia vissuta nella teoria e nella pratica dal ricco banchiere, spiegata al suo amico invitato a cena per festeggiare il proprio compleanno, attraverso sillogismi e razionali costruzioni del discorso, diventa reale, quanto filosofica, reazione ad una ingiustizia sociale fondata sulle differenze create dalla società attraverso le sue finzioni e convenzioni, prima fra tutte il denaro. Liberarsi da queste convenzioni è l’atto anarchico che prelude ad una società più giusta. È per queste ragioni che il protagonista è divenuto banchiere. Accumulare una grande quantità di denaro per potersi liberare dalla sua schiavitù.

L’opera morale di Pessoa è trasposta con cura maniacale sullo schermo da Giulio Base che riduce la scena da una composizione teatrale, servendosi, soprattutto nella prima parte del suo film, di alcuni consueti tocchi di regia che distinguono il teatro filmato dal cinema con struttura essenzialmente da palcoscenico. La parte successiva, quando più incalzante si fa l’argomentare sulla scena e, per converso, la logica della riflessione prende il sopravvento, Base rallenta i movimenti della sua macchina da presa per stringere sui primi piani degli attori in scena.
Cinema sempre rischioso quello che fonda la sua essenza su un testo fondamentalmente teatrale, anche se in questo caso, a rigore, il lavoro dello scrittore portoghese non ha questa finalità. Base comunque risolve bene il nodo espressivo e in verità, il suo film, non ha smagliature e ritrova una propria fisionomia cinematografica, nonostante il rischio corso. Gran parte di questo risultato va attribuito all’efficace interpretazione dello stesso Giulio Base che riserva per se il ruolo del protagonista. La serrata coerenza del discorso del banchiere, che diventa compendio più generale per una opposizione intellettuale alla logica della dominazione, è sottolineata da Base con efficacia puntuale, con la mimica, con la compostezza della figura, con la secchezza del gesto.
Certo Il banchiere anarchico soffrirà, in termini distributivi, di una certa difficoltà d’accoglienza, per la sua impostazione e per il preannuncio del suo svolgimento. Rifuggendo però da ogni definizione che releghi l’operazione di Base ad un audiolibro (come da commenti raccolti in sala, nell’immediatezza della conclusione), va dato atto al regista torinese di avere avuto coraggio di mettere in scena il testo di Pessoa, senza badare troppo alle critiche che sicuramente gli sarebbero state mosse per un’operazione del genere i cui confini sfumati confondono il film con una messa in scena teatrale tout court. Proprio su tale considerazione una domanda – diremmo – nasce spontanea. Per quale motivo farne un film e non una regia teatrale che sembrerebbe costituire la naturale conclusione del lavoro produttivo. Le motivazioni possono essere molte e diventa inutile avventurarsi in soluzioni e risposte che andrebbero di sicuro totalmente o parzialmente fuori bersaglio.
Di sicuro c’è che il merito di Base è stato quello di superare la prova che aveva programmato, sia come regista, sia come attore, di avere diffuso un testo non troppo conosciuto del poliedrico ed enigmatico scrittore lusitano e di avere introdotto, in tempi come questi – e nulla avviene per caso – un tema difficile e complesso come il discorso sul potere. In tempi di fascinazione dell’atto di supremazia compiuto dal detentore del potere (a 50 anni dal ‘68), con l’acquiescenza (quasi) del tutto supina della maggioranza e l’indifferenza delle minoranze, il gesto autoriale di Base costituisce un contributo alla riflessione sul tema. Tutto ciò a patto che si voglia riflettere e che anche il cinema, essenziale pedina di una più larga epitome culturale, non diventi solo un altro prodotto di consumo, utile ad occupare qualche ora del nostro tempo per lasciare del tutto immutati i pensieri. Questo non solo ha poco a che fare con il senso dell’impiego del bene culturale, ma è un favore fatto al potere che, di solito, come sappiamo, guarda con sospetto, al gesto e alla preparazione che produca pensiero sinceramente critico, quindi sempre anarchico perché depurato da ogni condizionamento.

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