#Venezia75 – Process, di Sergei Loznitsa

URSS, 1930: vedere e provare il momento in cui la macchina del terrore creata da Stalin, viene messa in azione. Il processo è una tragedia, ma la storia è un falso. Fuori Concorso

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Mosca, URSS, 1930, Sala delle colonne nella Casa dei sindacati. Un gruppo di economisti e di ingegneri di alto livello sono a processo con l’accusa di aver organizzato un colpo di stato contro il governo sovietico. Si ipotizza un loro patto segreto con il primo ministro francese Raymond Poincaré diretto a distruggere il potere sovietico e restaurare il capitalismo. Sono tutte accuse false e gli accusati sono costretti a confessare crimini che non hanno mai commesso. La corte emette delle sentenze di morte. Grazie a materiali di archivio unici, si ricostruisce uno dei primi processi farsa architettati da Stalin, contro il fantomatico, quanto inesistente, “Partito dell’Industria”. La tragedia è vera ma la storia è un falso. Il film offre un’inedita visione delle origini di un regime spietato che fece dello slogan “La menzogna è verità” la sua realtà quotidiana. Il regista: “Ho cominciato a lavorare a un film sui processi farsa di Stalin, che si tennero nell’Unione Sovietica negli anni 1930, un paio di anni fa. Inizialmente, volevo montare delle riprese di processi diversi per mostrare come fu allestita la macchina del terrore sovietico e come, lentamente, il sistema penetrò nella mente dei cittadini innocenti. Studiando il materiale d’archivio, però, ho trovato delle riprese che sono assolutamente uniche. Ho deciso quindi di realizzare un film che fornisse allo spettatore la possibilità di trascorrere un paio d’ore nell’URSS del 1930: vedere e provare il momento in cui la macchina del terrore di Stato, creata da Stalin, veniva messa in azione. L’intenzione era ricostruire il processo passo dopo passo. Abbiamo restaurato e conservato il suono registrato nel 1930. Mi sono permesso di aggiungere un commento solamente alla fine del film. Commento necessario per affermare la verità giacché è impossibile discernerla in qualsiasi altro momento. Process è un esempio unico di un documentario in cui si vedono 24 fotogrammi di bugie al secondo”.

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Che senso ha tutta questa operazione? Domanda sbagliata, nonché terribilmente sconsiderata. Loznitsa ci presenta un film già fatto, il suo merito sarebbe solo quello di averlo scovato, recuperato, ripulito, rianimato. Ma questo dubbio avrebbe senso se non conoscessimo il regista e non riconoscessimo la sua statura intellettuale ed espressiva. Tutto sarebbe quindi permesso ai grandi autori? Beh, questa è un’altra storia: proprio tutto no, almeno credo, ma se ci si sorprende e ci si commuove ogni volta che arriva il momento di spegnere e riaccendere la macchina da presa o qualsiasi altro supporto, allora evidentemente ciò che si smuove è qualcos’altro che non puoi costipare negli archivi della memoria. L’archivio, appunto, quest’arma sempre più contemporanea e necessaria, che anima il furore interno di voler riscrivere e rimpastare la storia, attraverso immagini già acquisite, apparentemente devastate dal tempo. Loznitsa sente, e non può fare a meno di agire, che l’immagine di natura sfuma nel nero e praticamente diventa muta, in un silenzio sordo, ottuso, sentendo gradualmente il corpo della macchina e della memoria che si raffredda. Ma le immagini, catturate, deportate, alcune volte, rimangono per sempre. L’occhio fisso, sulla giuria, sugli accusati, la platea, i cortei giustizialisti per le strade, quasi senza palpebre, ha scrutato instacabilmente un processo interno, in un immenso e immutabile presente. Senza una memoria vivificante, gli eventi baluginano sul suo sensore, indugiano come immagini residue. L’audio non sempre è in sincorono, le figure non sempre in campo, ma le immagini gridano un disperato bisogno di aiuto. Estrarre dalla superficie delle immagini l’impalpabile sedimento d’esperienza di vita, l’urlo paralizzante. È difficile immaginare come lo spirito umano potrebbe funzionare senza la convinzione che nel mondo vi sia qualcosa di irriducibilmente reale; ed è impossibile immaginare come la coscienza potrebbe manifestarsi senza conferire un significato agli impulsi e alle esperienze dell’uomo. La coscienza di un mondo reale e dotato di significato, è probabilmente legata intimimamente alla scoperta del sacro.

La tragedia è vera, ma la storia è un falso, è questo il punto cruciale? Forse non più, forse non più come qualche decenno addietro, in cui si sospettava solo questo andazzo. Ormai è prassi. Il punto è invece: perché scegliere il cinema e un festival, per tali operazioni? Perché non sfruttare tali archivi per operazioni più articolate, complesse, costruite? Perché disfarsi del montaggio, della creatività? La risposta sta nelle prime inquadrature della città di Mosca sotto la neve, che sembra appena svegliarsi e ripartire in tram , in slitta, sui calesse, a piedi sul ghiaccio. Il “processo” è progresso inevitabile, inattaccabile, senza appello. Loznitsa si fa voce e occhio dell’umanità aumentata, più che della realtà, in cui poter estendere ogni azione quotidiana, sovrapporre e, non più soltanto virtualmente condividere, il distacco da sé e il mondo. La menzogna è verità, lo sa bene Errol Morris nel suo documentario su Steve Bannon e lo sa ovviamente anche Frederick Wiseman con il suo Monrovia, Indiana. E quando le interminabili testimonianze del processo di Loznitsa si susseguono in tonalità militare, torna alla memoria il banditore d’asta dei trattori di Wiseman, che reppa in folk, a velocità supersonica, numeri e cifre, come se fluttuassero nell’aria, nell’aria perturbante dell’ordinario. “La giusta comprensione di una cosa e la incomprensione della stessa cosa non si escludono” (Franz Kafka).

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