#Venezia75 – Your Face, di Tsai Ming-liang

Un gigante che ormai fa film con niente per attraversare tutte le interpretazioni possibili. Fino a sciogliere le contraddizioni nella pura constatazione della loro evanescenza. Fuori concorso

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Tsai Ming-liang è sempre stato un regista di primi piani: volti che piangono silenziosamente o che si disperano a squarciagola, contemplazioni attonite e sguardi persi nel nulla o nel tutto, che non fa differenza. Ma è da sempre anche un grande disegnatore di ambienti, capace di incunearsi tra le cose con la forza di una prospettiva tutta sua, mai neutrale. Un mondo precario, certo, fatto di case crollate e mura che piangono. Ma pur sempre un mondo, da attraversare con il passo lento di un monaco buddhista… Fino al definitivo esperimento di un’immersione da Virtual Reality, con cui tracciare intorno allo sguardo le traiettorie e i confini di uno spazio da abitare. Uno spazio sgranato, sgretolato, in dissolvimento nel tempo limite della durata di una visione. Ma in cui poter condividere, per quel che vale, la propria solitudine con quella dei personaggi muti, con le altre presenze non ancora o non più visibili, al nostro fianco, nella realtà schermata dalle tecniche della divisione, o là dentro, nella trama incerta delle immagini.

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Oltre le macerie e i deserti c’è sempre vita. Oltre le illusioni delle tre dimensioni, l’universo si muove ancora. Ed è forse per questo che Tsai ora avverte l’esigenza di tornare all’umano, di incontrare le persone, di sentirle parlare e di affrontarle nel modo più immediato possibile. Guardandole in faccia… Mentre lo spazio intorno è avvolto nell’oscurità, emergono dal buio solo i primi piani… donne, uomini, c’è chi ride, chi si irrigidisce e chi si addormenta, chi non fiata e chi ama raccontarsi come fosse in un documentario. Ecco, se in Visage Tsai incontrava i suoi attori truffautiani come fossero fantasmi riemersi da un altro tempo del cinema, qui torna alla concretezza delle persone e riscopre un realismo tutto suo. Sono i volti ad aprire mondi, come fossero paesaggi, valli tra le pieghe delle rughe, le foreste di capelli, il lucido scintillante dei trucchi, le necrosi della pelle. Tessiture fisiognomiche che sono incrostazioni geologiche. Come il profilo di Denis Lavant che si confondeva con le montagne sullo sfondo, in Journey to the West. Ma “reale” è una parola che non vuol dire niente, si confonde nell’inganno delle apparenze e dei fraintendimenti, come avverte la prima signora che si presta all’obiettivo: “è strano, sullo schermo è tutto diverso”. E a confermarlo, alla fine, arriva Lee Kang-sheng/Hsiao-kang, “non più tanto giovane”, che ancora una volta confonde i fili tra la vita e il cinema. Perché Tsai è sempre sul punto di coincidenza, nei nodi che si creano tra i flussi, quelli in cui il concreto si intriga con l’astratto o il vuoto col pieno. Ormai ha la lucida grandezza di fare film con niente per attraversare la vertigine di tutte le interpretazioni possibili. E utilizza la musica omaggio di Sakamoto per amplificare i silenzi. Fino a sciogliere le contraddizioni e i groppi in gola nella pura constatazione della loro evanescenza. In fondo o tutto è reale, anche il flusso dei ricordi affastellati negli anni o il credere che massaggiarsi le tempie possa prevenire gli ictus. O nulla lo è, né le persone né le case, le chiese, i sassi. Reale, forse, è solo la frattura che si produce tra un respiro e l’altro, tra un fotogramma e l’altro, quella distanza che separa la ripresa dalla comprensione. Reale è solo il tempo che scorre sui volti e li incide, che attraversa gli spazi, la solidità delle architetture, per dissolverle nella luce del giorno che si spegne. Per questo, Your Face finisce sul “set” vuoto. O meglio, ancora un po’ più in là, non ha altra chiusura possibile che la stessa immagine buia, assente, liberata anche dall’ultima illusione del set. Vuoto e soffio. La sostanza si riduce a questo. Ed è una specie di liberazione.

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