#Venezia76 – Fellini fine mai, di Eugenio Cappuccio

Eugenio Cappuccio affronta l’improbo compito di raccontare da un’ottica diversa il regista riminese, promettendo rivelazioni sulla lavorazione di Viaggio a Tulum. Venezia Classici doc

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“L’unico vero realista è il visionario”. Ricorre spesso durante la visione di Fellini fine mai l’aforisma autonomo che racchiude la poetica di uno dei maggiori interpreti della cinematografia mondiale. Eugenio Cappuccio torna per la seconda volta dopo il mediometraggio del 2006 Verso la luna a sondare da un’altra prospettiva il mistero buffo che nonostante la prodigalità di studi aleggia attorno alla figura del regista riminese. Il documentario presentato a #Venezia76 è uno strano oggetto audiovisivo che si nutre consapevolmente di contraddizioni sia strutturali che di senso. Il tentativo di ibridare la parte più canonica del documentario, quella che si serve dello sterminato archivio di Rai Teche e delle interviste a collaboratori ed amici illustri, togliendone pesantezza accademica attraverso l’assenza di un plot predefinito, “una specie di amarcordino libero” per usare le stesse parole del regista all’interno del film, riesce infatti solo in parte. Il racconto in modalità selfie di Fellini fine mai, come avviene in quasi tutti gli autoscatti della gente che sceglie di impallare motu proprio un bello sfondo, evidenzia il contrasto con l’oggetto ripreso. Tra le inquadrature sghembe di Cappuccio e i famosi stralci delle interviste rilasciate da Fellini a Sergio Zavoli è ancora il materiale di repertorio a parlare più visceralmente allo spettatore.

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Non si tratta di fandom o mitologia cinematografica: l’autore racconta la sua esperienza di collaboratore sul set di Ginger e Fred e vaga ramengo su pochi luoghi della filmografia felliniana. Rimini, Ostia e Roma vengono sorvolate col drone lasciando che sia la memoria del cinefilo ad agire da collante/reagente.  “Così vengo malissimo” dice Fellini in uno spezzone del documentario all’operatore che lo sta filmando per un’intervista mentre quest’ultimo abbassa la cinepresa per riprenderlo dal basso verso l’alto. Forse l’ambizione era proprio quella di voler replicare lo stesso controllo dello sguardo, la stessa rinuncia consapevole all’onniscienza della dichiarazione filmata e persino l’affabulazione di quello che Sordi stesso definisce “oltre ad un grande regista, un grande bugiardo”. Un’operazione che nonostante le contraddizioni riusciva a far emergere alcuni interessanti spunti confluisce nella seconda parte, quando irrompe la misticheggiante aneddotistica intorno alla lavorazione di Viaggio a Tulum, progetto filmico abortito che trovò la sua versione a fumetti grazie ai disegni di Milo Manara, generosamente concessi per quest’occasione. Attraverso l’intervista via Skype alla guru spirituale Christina Hengelhardt veniamo così a sapere che ai tempi dei sopralluoghi messicani prima della lavorazione il regista riminese ricevette misteriose telefonate da non identificatesi divinità tolteche. Qui Cappuccio, probabilmente entusiasta per le novità fattuali riportate, si fa contagiare stilisticamente dai modi dell’inchiesta televisiva dando la sensazione che l’amarcordino libero sia stato il cavallo di Troia attraverso cui veicolare queste rivelazioni, il che porta malauguratamente ad uno scollamento di mezzi e senso.

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