#Venezia76 – I diari di Angela – Noi due cineasti. Capitolo secondo, di Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi

Questo Capitolo secondo dei diari di Angela Ricci Lucchi è il film che resta una volta ottenuta la radice quadrata di ogni struttura: la promessa di infiniti altri film

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Artisti o cineasti? È, in fondo, l’interrogativo che attraversa questo secondo capitolo dei Diari di Angela e su cui pare riflettere anche Ghezzi, mettendo in crisi, dalla radice, le premesse del sottotitolo: noi due cineasti… Eppure la questione pare leggermente sfocata, quasi fosse una specie di depistaggio. Indugiare sulla domanda sarebbe come muoversi sull’orlo di labirinti borgesiani: sentieri che si biforcano e traduzioni che doppiano l’originale. Pierre Menard, autore del Quijote… Perché se penso al modo in cui Angela Ricci Lucchi e a Yervant Gianikian ridisegnano le mappe dell’universo di immagini e immaginari del xx secolo, viene in mente un lavoro che ha a che fare più con gli esploratori, i pionieri e gli archeologi, gli amanuensi , i cartografi e i glossatori. Qualcosa che richiede la pazienza più certosina, ma anche una tensione incontrollabile, nervosa. Un che di febbrile…

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Non a caso l’ansia fondamentale, ancor più evidente in questa Parte Seconda, è quella del viaggio. Avanti e dietro nel tempo, da un capo all’altro del mondo filmato e filmabile. E così l’incipit fuori orario è solo una parentesi che dà nuovo ritmo alla scrittura ininterotta dei diari. Si riparte, infatti, dal luogo in cui ci eravamo fermati nel primo capitolo, dal ritorno a casa in Armenia, con Walter Chiari che descrive la cima dell’Ararat avvolta dalle nubi. Ma anche questa è solo una pausa di poesia simbolista, subito dissipata dalla voce neutra di Yervant che macina i chilometri, leggendo le pagine (non consumate) di Angela come fossero telegrammi o dispacci di agenzia. Si sovrappongono fotografie e poche notazioni. Ed è tutto un elenco di luoghi, incontri, proiezioni fatte, cene e pietanze, Jonas Mekas, New York, Utica, Pasadena, San Francisco, Los Angeles, El Paso, Minneapolis… Sono i viaggi negli Stati Uniti, fondamentali per la carriera dei due artisti/cineasti. I primi a cavallo degli anni ’70 e ’80, quando entrano in contatto con la scena underground e sperimentale americana e guadagnano la meritata riconoscibilità. Poi i ritorni ripetuti nel corso dei decenni, dalle retrospettive al MoMA fino alle torri gemelle crollate, inseguite per un attimo dall’obiettivo che si alza a scoprire la loro assenza. Quel vuoto è la metafora decisiva. La Storia è sempre l’oggetto privilegiato, “la violenza nel Novecento”. Ma ora è come se stesse sullo sfondo, sfocata. C’è un margine nebbioso, confuso, di invisibilità. Ed è con la stessa sensazione che si passa alle terribili immagini della settimana santa a Gerusalemme, con la caterva dei fedeli che si accalcano e si scontrano tra i luoghi santi, in una crociata impazzita del tutti contro tutti. O ancora al racconto di Angela che ricorda l’infanzia lungo la Linea Gotica. La lettura partecipe di Lucrezia Lerro fa quasi da contraltare all’oggettività di Gianikian. Mentre scorrono gli acquerelli di Angela, quelle figure minute, abbozzate, specie di vignette che si stagliano dal fondo bianco della carta e arrancano nel vuoto: da lì si intuisce la presenza di tutto un mondo intorno che non è stato disegnato, che non ha avuto il tempo di essere rappresentato. Ecco, il lato oscuro…

Avevamo soltanto in testa l’idea di filmare tutto”, confessava Gianikian appena un anno fa. Il sogno protervo di una visione ubiqua. Ma per essere davvero dappertutto, per filmare tutto, non dovresti soffermarti su nulla. Sarà il motivo per cui questo secondo capitolo sembra seguire una pura traiettoria orizzontale, come un’informazione neutra, telegrafica appunto, un vettoriale di movimento che rinuncia immediatamente a qualsiasi pretesa di profondità. Ma il segreto sta nel terreno franoso su cui ci si muove. Il terreno smotta, si sbriciola all’ingiù. Ed eccoci di nuovo nell’abisso e nella vertigine. In fondo, la vera ansia di Angela e Yervant è in questo sforzo di porre rimedio all’impossibile, di recuperare un’immagine per ciò che manca o che viene a perdersi. È come per i film profumati: si prova a creare un altro senso che farà sempre difetto. I due compagni, come Bouvard e Pécuchet, attraversano gli argomenti, i campi e i saperi. E sognano di ricopiare e stivare tutto in un archivio enciclopedia universale. Ma sì sa che ogni catalogo si ferma ai limiti del catalogabile. Qualcosa sfugge sempre all’elenco, alla compilazione e alla tassonomia. E così ogni film si arresta ai confini del filmabile. “Sì, però adesso spegni”, dice Angela a Yervant dopo una lunga e straordinaria conversazione sulle crociate. Quasi a voler ricordare che c’è un margine (fisico/ideale/morale?) oltre il quale non si può andare. Sia il buco nero delle immagini o l’architettura carceraria dell’inquadratura, l’impossibilità stessa di immaginare e incontrare quel tutto da filmare, quella infinita parte del tutto che si è perduta o quell’altra infinita che ancora non è stata trovata…

Se c’è qualcosa che rende struggente questa seconda parte dei Diari di Angela, anche oltre l’urgenza della perdita che animava la prima, è proprio in quest’ammissione di precarietà, in questa sua parvenza fragile, incompleta, quasi scomposta. E la sensazione che emerge più di ogni altra, tra una riga trasmessa e uno stop, è quella di un progressivo sfiancamento. La fatica del viaggio, gli acciacchi della salute, l’affanno e il mancamento rabbioso di Angela di fronte al caos dei pellegrini di Gerusalemme. È un po’ la spossatezza del tempo che si consuma, dell’energie fisiche che si dissipano al pari delle immagini, che non ce la fanno a star dietro a tutto, che stentano persino a conservare la propria integrità, trascolorando nella definizione incerta o nella perdita di grana della pellicola che scade. Come in quelle scene finali girate a Predappio: i cento anni di Mussolini disegnati con un inchiostro di seppia sbiadito. Eppure, proprio quelle immagini dovrebbero essere la prima pietra di un nuovo progetto sulla storia del fascismo. Per dire che la spossatezza è solo il picco inferiore di curva tra lo sforzo compiuto e la tensione ancora in vibrazione. Racconta del lavoro fatto e di quello da fare. Come un archivio, ben prima della sua completezza, rende contro delle sue scelte, dei percorsi, delle esclusioni, così dalle immagini catturate, rimontate, compattate nel testo, come fossero ammonticchiate in ordine nella stiva di un deposito da riutilizzare nei tempi futuri, tempi grami, percepisci un movimento ulteriore, tutto un flusso ininterrotto di incontri, ricordi, sensazioni, esperienze. Ma anche tutto mondo che gira intorno e che compone, per cerchi concentrici o linee divergenti, la storia, maiuscola o anonima che sia. Sì, questo Capitolo secondo è il film che resta una volta ottenuta la radice quadrata di ogni struttura: la promessa di infiniti altri film. Da inseguire, ancora, insieme ad Angela, tra le altre pagine dei suoi diari, tra le sue idee, i suoi disegni, i suoi progetti.

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