#Venezia76 – Incontro con Giuseppe Capotondi, Mick Jagger e il cast di The Burnt Orange Heresy

#Venezia76 mette il sigillo ad un’edizione che ha riflettuto spesso su quest’epoca di post-verità attraverso il film di Giuseppe Capotondi presentato oggi, giallo-noir dove nulla è quello che sembra

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L’ovatta del Festival più glamour non è riuscita ad escludere del tutto il rumore (bianco?) della realtà circostante. Questa mattina la gioiosa occupazione del red carpet da parte di un colorato drappello di giovanissimi esponenti del movimento NO GRANDI NAVI ha mandato in fibrillazione l’organizzazione facendo temere perfino lo slittamento della cerimonia di premiazione. L’allarme è però rientrato poche ore fa e lo scampato pericolo ha permesso a The Burnt Orange Heresy, di Giuseppe Capotondi di presentarsi alla stampa attraverso le interviste al regista italiano e al cast. Selezionato Fuori Concorso e tratto dall’omonimo libro di Charles Willeford il secondo film del regista di “La doppia ora” è la perfetta chiusa, almeno dal punto di vista tematico, di questa edizione. “Questo film riguarda il confine tra il vero e il falso e perciò si inscrive in questo dialogo moderno”, afferma infatti Mick Jagger, qui nelle inusitate vesti di attore. Come a voler rilanciare le parole dell’amico-rivale Roger Waters, anche lui presente ieri a Venezia per presentare US + THEM, il frontman dei Rolling Stones con lo stile moderatamente rock che ha acquisito negli ultimi anni dice di appoggiare le rivendicazioni degli ambientalisti veneziani “perché sono questi ragazzi che erediteranno il Pianeta. Dobbiamo dare loro l’appoggio che meritano”. La politica dell’oggi fondata sul declassamento del fatto oggettuale a favore dello storytelling più viscerale si riflette inevitabilmente in un film come The Burnt Orange Heresy che racconta di una coppia d’amanti disposta a qualunque inganno e sotterfugio pur di appropriarsi di un quadro appartenente al ricco Debney, interpretato da Donald Sutherland. La menzogna come unica via per raggiungere l’obiettivo è allora l’estuario artistico de “l’epoca della Post-verità o della Post-vergogna” per usare le stesse parole del regista Giuseppe Capotondi. “La doppia ora riguardava l’impossibilità di accettare chi siamo. Qui il tema centrale è l’accettazione della verità. Entrambi i miei film sono dei noir, thriller psicologici ma hanno delle differenze. Qui sfrutto la leggerezza del genere alla Hitchcock per dire qualcosa d’importante sull’arte e sulla falsità”. Una leggerezza stilistica che non viene però avvertita dagli attori del film, in primis dall’entusiasta Donald Sutherland che si lascia andare ad un’importante investitura: “Questa è la migliore sceneggiatura che abbia letto negli ultimi 20 anni. Vi sono alcuni brani di poesia che mi hanno sedotto”. Anche la statuaria Elizabeth Debicki sottolinea la bellezza di scrittura del suo personaggio, “una persona pura e vulnerabile ritratta in una fase della sua vita in cui ha smesso di servirsi del suo istinto”. La truffa in cui verrà coinvolta a causa dell’amore che prova per il critico d’arte James Figueras le farà scoprire l’ontologica necessità della simulazione. È Mick Jagger a fornire allora la migliore chiusa al discorso quando ricorda che il creativo è colui che “indossa più maschere invece di toglierle”. Che si sia ladri di quadri come i protagonisti di The Burnt Orange Heresy o ladri di futuro come i governanti citati spesso in questa edizione della Mostra gli artisti della mendacità sono oramai legione.

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