#Venezia76 – La vérité, di Hirokazu Kore-eda

Un cinema che mantiene un cuore intatto, sebbene si intraveda un accento più intellettuale e cinefilo. Quasi l’esigenza di rendere omaggio a un’eleganza francese. Film di apertura della Mostra

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Fabienne è una grande attrice del cinema francese. Una carriera ormai mitica, a cui è stato sacrificato un po’ tutto: amicizie, amori, affetti familiari. Forse il genio della recitazione ha chiesto in pegno la verità, la parte più profonda dell’anima. Ed è quello che sembra imputarle la figlia Lumir, che non comprende la finzione dell’immagine pubblica, dell’autobiografia tramandata. Quel momento in cui la bambina correva felice incontro alla madre, all’uscita di scuola, non c’è mai stato. È un’invenzione a beneficio del pubblico. Eppure anche Lumir ha giocato a nascondersi, è fuggita dalle ombre del passato per rifarsi un’altra vita a New York. Ed è diventata sceneggiatrice. Lavora di finzione, costruisce su modelli, incastra personaggi, situazioni, battute. Forse arriva persino a inventare il suo dialogo tormentato con la madre. Mentre tutti, intorno, più o meno, recitano, mandano avanti la propria parte…  Che sia Fabienne, alla fine, la persona più “vera” di tutte?

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E se la verità non fosse che una questione di stile? Qualcosa che è il cristallo di tutto ciò che si muove sotto, dentro. La forma sembra staccarsi dal corpo delle cose. Eppure non può che emanare dall’intrico delle idee e dei sentimenti. Si genera nel momento in cui quel caos è squarciato da un’illuminazione e si condensa nella precisione di un gesto. Vela e rivela alla stesso tempo. Come il colpo di pennello che traccia un’ideogramma, la linea perfetta che è la sintesi di un’intuizione. La verità è coperta, protetta dalla finzione.

In fondo, il cinema di Kore-eda potrebbe benissimo essere quel colpo di pennello. Tende alla semplice purezza del cristallo, ma ovviamente mostra la riflessione e la rifrazione del quotidiano che sta attorno, le iridiscenze che si producono sulla superficie. Kore-eda vibra con calma. La vérité potrebbe essere un viale del tramonto che devia nel melodramma familiare incandescente. Ma no, tutto rimane al di qua di ogni tinta nera o rossa che sia. L’esistenza, come sempre, è solo rugiada. Zen…

Chi temeva lo snaturamento, può star tranquillo. Lo sguardo di Kore-eda resta perfettamente giapponese. Ma soprattutto, quel che più conta, sa toccare le corde di tutti. Perciò resta vero, al di là di ogni spiazzamento geografico. Semmai si ha la sensazione di un percorso inverso a quello degli impressionisti che si ispiravano alle stampe e alle iconografie giapponesi. Sì, per rompere gli schemi di una tradizione pittorica inscalfibile… ma c’era comunque un esotismo, con le sue languide fascinazioni. Ecco, qui, è come se Kore-eda sentisse l’obbligo di omaggiare un altro tipo di raffinatezza, un’eleganza francese. E, perciò, il suo è un film sottilmente esotista. Certo: dietro, sotto, il cuore del suo cinema rimane intatto. Si continua a parlare di famiglie, di genitori e figli, di tempo che passa. Ci sono momenti di pura bellezza, come il ballo improvviso, la sera, per le strade di Parigi. C’è la sottile magia delle cose, le streghe del Bois de Vincennes, gli uomini-tartaruga, i fantasmi che riappaiono, e tutto si confonde con l’ordinario volgere delle stagioni. È la vita, insomma… Eppure, qui, Kore-eda mostra un accento più marcatamente intellettuale rispetto alla purezza quotidiana della sua visione. Come nella trovata del film nel film, quel gioco di specchi in cui i piani della storia si mescolano e vengono fuori gran parte dei nodi drammatici. Ma, soprattutto, c’è un’esibizione di cinefilia improvvisa, quasi inaspettata. Una continua dichiarazione di metodo e di gusto. Ecco, per la prima volta, l’amore per il cinema sembra prendere il sopravvento rispetto a tutto. Ma, comunque, anche in questo Kore-eda mostra la sua sincerità indubitabile. Fino a lasciare una timida traccia del suo spaesamento nella presenza “incongruente” di Ethan Hawke, presa in mezzo allo splendore di Catherine Deneuve e Juliette Binoche. Potrebbe essere una proiezione: anche Ethan Hawke parla un’altra lingua e si tiene, in un certo senso, a un passo di distanza, quasi ai margini dell’incomprensione. Eppure sta lì, fuori e dentro il film, a smorzare i conflitti e a far da actor coach per i bambini che si affacciano sul set. Tiene ancora insieme le cose, a modo suo. È quello che fa un grande regista. È ciò che fa Kore-eda.

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