#Venezia76 – The Burnt Orange Heresy, di Giuseppe Capotondi

Il film di chiusura del festival è un thriller sul mondo dell’arte con un cast internazionale, tra cui Mick Jagger e Donald Sutherland. Fuori concorso.

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Che fine aveva fatto Giuseppe Capotondi? Formatosi nel mondo degli spot pubblicitari e dei videoclip musicali, negli ultimi anni si è cimentato nelle serie tv, dirigendo anche alcune puntate di Suburra. Il cinema sembrava essere stato messo da parte, fino a questo The Burnt Orange Heresy, titolo di chiusura del Festival di Venezia. Ci sono quindi voluti dieci anni di distanza dal suo esordio dietro la macchina da presa con La doppia ora, perché il regista italiano tornasse sul grande schermo con questo thriller ambientato nel mondo dell’arte, tratto da Il quadro eretico, un libro del 1971 di Charles Willeford.

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Siamo in Italia. Al termine di una lezione sulle pittura a dei turisti, il critico d’arte James Figueras (Claes Bang) incontra Berenice Hollis (Elizabeth Debicki), con cui inizia una relazione. Qualche giorno dopo i due vengono invitati nella tenuta sul lago di Como del collezionista Joseph Cassidy (Mick Jagger). Tra gli ospiti di Cassidy c’è anche il pittore Jerome Debney (Donald Sutherland), che da anni vive come un recluso lontano del mondo dell’arte. Cassidy chiede segretamente a Figueras di procurargli un dipinto di Debney.

Capotondi e lo sceneggiatore Scott B. Smith non fanno molto per rendere attuale un testo infarcito di considerazioni estetiche di mezzo secolo fa. È il principale limite e allo stesso tempo il fascino di un’opera che sembra appartenere a un’altra epoca. L’ambizione di The Burnt Orange Heresy è comunque quella di riflettere sul confine tra verità e menzogna, originale e copia. Ma anche di raccontare con un filo di ironia il modo con cui la critica riscrive l’arte, sostituendosi a essa.

Tante idee, forse troppe, in questo noir fatto di citazioni accademiche e di cinici personaggi ossessionati dalla fama. Nonostante alcune ingenuità di scrittura – riversate prevalentemente nel personaggio di Elizabeth Debicki e in un finale sbrigativo – Capotondi dimostra però ancora una volta di sapersi muovere con scioltezza nel linguaggio del cinema di genere e di sfruttare bene un cast internazionale interessante, dove spicca un Mick Jagger sarcastico e luciferino al punto giusto.

A scapito dei suoi colti riferimenti cinematografici – ancora l’amato Hitchcock, De Palma, ma anche atmosfere che ricordano Anthony Minghella – il cineasta italiano si rivela forse più un raffinato “confezionatore” che un autore con una sua precisa identità. Eppure c’è da riconoscergli il coraggio di maneggiare una materia che in pochi in Italia possono permettersi di fare. Capotondi ha in testa un cinema interessante e ci piacerebbe non dover aspettare altri dieci anni per vedere un suo nuovo film.

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