#Venezia76 – The Painted Bird, di Václav Marhoulh

La Shoah come se fosse un horror con un formalismo compiaciuto, inutile e dannoso che non risolve le ambiguità del controverso romanzo di Jerzy Kosinski da cui è tratto.

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La luce avvolta dalle tenebre. La Shoah quasi avvolta dalle forme di un horror. Dove il martirio del protagonista può apparire come un incubo da cui non ci si sveglia mai. Alla base del film di Václav Marhoulh, che già aveva affrontato le forme del cinema storico-bellico con Tobruk, c’è il romanzo di Jerzy Kosinski (pubblicato in Italia da Minimum Fax), lo stesso scrittore di Oltre il giardino, morto poi suicida nel 1991 a 57 anni. Un libro che mescola fantasia e autobiografia (anche se negata da Kosinski) e che all’epoca della sua uscita nel 1965 aveva suscitato molte polemiche. Al di là della Cortina di Ferro era considerato nazionalista e pericoloso dal punto di vista ideologico. Ma anche in Occidente era stato accusato di plagio.

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Ambientato nell’Europa dell’Est durante la Seconda Guerra Mondiale, vede protagonista un bambino ebreo che viene affidato dai genitori a un’anziana madre adottiva per proteggerlo dalla persecuzione nazista. La donna però muore e il ragazzino inizierà a vagare tra villaggi e fattorie scontando sulla sua pelle la violenza dei contadini locali e la brutalità dei soldati russi e tedeschi.

Quasi un cammino cristologico in un film che non risparmia nulla. Anzi, pare invece piuttosto compiaciuto nel mostrare l’educazione alla violenza e alla vendetta. C’è davanti agli occhi del bambino un perenne senso di distruzione di tutto quello che va avanti. A cominciare delle fiamme del fuoco all’inizio. Un cinema che ha l’ossessione di mostrare tutto, anche oltre, per avere un effetto scioccante. A cominciare dal protagonista picchiato dentro un sacco. Preso inizialmente quasi per l’incarnazione del demonio. Ma il cinema scandinavo degli anni ’20, Bergman o Dreyer non c’entrano nulla. Marhoulh sembra indirizzarsi soprattutto ad annullare, a spegnere lo sguardo del bambino. Facendo così, annulla pure quello sulla Storia, sui sentimenti e sul paesaggio. Coperto dalla sua durata di 169 minuti, dove l’effetto disturbante è costruito essenzialmente attraverso un accumulo di immagini. Oltre alle continue vessazioni subite dal ragazzino (resta impressa quella in cui è quasi completamente sotterrato tranne la testa ed è attaccato dai corvi), c’è anche una scena di sesso tra una giovane ragazza e una capra (che, di fatto, accende e spegne ogni forma di desiderio). E una galleria/comparsata di attori più famosi come Udo Kier (il mugnaio), Harvey Keitel (il sacerdote cattolico), Stellan Skarsgård e Barry Pepper (due soldati) e Julian Sands (un uomo che prima da ospitalità al bambino e poi trasforma la sua vita in un incubo). Risultato questo della coproduzione europea tra Repubblica Ceca, Ucraina e Slovacchia.

The Painted Bird non annulla le ambiguità del romanzo. E oltre a ciò che filma, appare estremamente fasullo anche il bianco e nero della fotografia di Vladimír Smutny. Perché The Painted Bird vuole anche essere un po’ Béla Tarr. Così, almeno per un po’, anche sentirsi un po’ fico. Spegne ogni minimo brandello di adesione emotivo. E inconsapevolmente, la tortura è proprio quella di un film ni confronti della storia. Che, come il bambino, perde identità. Non ha nome, non ha luogo e data di nascita. E la comparsa del cielo come metafora di libertà e il finale diventa una discesa negli abissi più profonda del pozzo con i topi in una delle scene centrali del film. Già preannunciata con la caduta dell’uccellino dall’alto. Per filmare la morte della speranza, del desiderio, bisogna rivolgersi da altre parti. Qui non si trova davvero nulla.

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