Venticinque anni dopo, L’Odio continua a bruciare

Sono passati venticinque anni dall’uscita in sala del film cult di Matthieu Kassovitz. A rivederlo oggi, con la rabbia che brucia nel mondo al grido Black Lives Matter, è più giovane che mai

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«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di 50 piani. Mano a mano che cadendo passa da un piano all’altro, il tizio per farsi coraggio si ripete: “Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene. Fino a qui, tutto bene.” Il problema non è la caduta, ma l’atterraggio.»

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Il 31 maggio 1995 usciva nei cinema francesi, fresco del premio alla miglior regia al Festival di Cannes, un film destinato a diventare un cult. Bianco e nero tremolante, sporco, rabbioso, come la colonna sonora che lo accompagna, L’Odio ha compiuto venticinque anni. Un anniversario importante, che sarà celebrato a settembre con la riuscita del film e con una grande festa al Palais de Tokio di Parigi, con proiezioni, dibattiti e performance in compagnia dell’artista JR, Ladj Ly, il regista de I Miserabili ed il collettivo Kourtrajmé da lui fondato con Romain Gavras.

E se è forse prerogativa di ogni cult, o classico, per dirla con Calvino, quello di avere sempre qualcosa da dire, questo compleanno ha una nuova, e amara, dose d’attualità. Ce lo ricorda il regista Kassovitz in un accorato video su Instagram, invocando giustizia per tutte le vittime degli abusi commessi da chi porta una divisa e per tutti coloro che subiscono queste violenze per nulla episodiche, che in Francia come oltreoceano sono frutto di una società sempre più classista e razzializzata.

Kassovitz si ispirò allora a un fatto di cronaca, quando nell’aprile del 1993 un giovane immigrato morì nel corso di un interrogatorio da parte della polizia. Da lì si sviluppa à rebours L’Odio, che racconta le ventiquattro ore che tre ragazzi della periferia, figli di immigrati, trascorrono vagando senza mèta in viaggio verso il centro di Parigi, con un’arma alla mano potenzialmente pronta a uccidere un «porco poliziotto» qualsiasi per pareggiare i conti. Un film esistenzialista e schraderiano che oltre a illustrare il disagio ed il determinismo sociale di chi si trova a vivere violentemente e disperatamente, come diceva Pasolini, relegato ai margini, cerca soprattutto, come affermò il regista, «una spiegazione alla catena di odio reciproco tra forze dell’ordine e giovane dei ghetti. Un meccanismo che sembra impossibile interrompere e che porta un ragazzo qualunque a cominciare una giornata con un’arma addosso e alla fine non c’è scelta: finirà ammazzato o sarà lui ad ammazzare. Gli abitanti dei ghetti per l’ottanta percento provengono dall’Algeria, gli altri sono di altri paesi africani, o portoghesi, italiani, tedeschi. Il razzismo dei poliziotti francesi è particolare, non si rivolge al colore della pelle, ma è un razzismo di tipo sociale: se sei povero e proletario, se vivi in un quartiere povero e proletario, bianco o nero o giallo che tu sia, io ti maltratto, anzi, ti uccido». Pochi giorni dopo l’uscita del film un altro giovane delle banlieues morì durante un inseguimento con la polizia, facendo dilagare immediatamente le rivolte in tutto l’hinterland parigino. Complice la narrazione fattane dai media, si continuò ad alimentare un immaginario manicheo di buoni e cattivi, violenti e non violenti, che disegna gli abitanti delle periferie come erbe cattive da estirpare o da lasciar crescere incolte lontano dal centro; dei veri miserabili, direbbe Ladj Ly parafrasando Hugo.

Sono passati venticinque anni da quella primavera del ’95, eppure, a discredito di chi in ottica positivista ha ancora speranza nel detto che vuole che la storia sia magistra vitae, le cose sono ben lontane dal cambiare: pochi giorni prima dell’anniversario del film cult di Kassovitz, dall’altra parte del mondo a Minneapolis, l’afroamericano George Floyd è morto soffocato durante un fermo della polizia. Il video girato da una passante in cui si vede l’uomo immobilizzato intento a chiedere al poliziotto inginocchiato sopra di lui di lasciarlo respirare, «I can’t breathe», ha fatto immediatamente il giro del web, innescando una miccia pronta a esplodere da tempo ed alimentata dalle disparità ulteriormente emerse con l’emergenza sanitaria in corso. Quello di Floyd, scrive Marie Moïse, è l’ennesimo omicidio poliziesco a sfondo razziale, l’ultimo dei tanti che sarà «derubricato a incidente ad opera di una “mela marcia”», una storia di ordinario razzismo. Le cifre sono spaventose, i casi molteplici: omicidi, fermi violenti e stupri in cui lo spettro del suprematismo bianco è sempre più o meno manifesto. In tutti i centri degli Stati Uniti, grandi e piccoli il fuoco è divampato al motto #BlackLivesMatter. Lo stesso sta accadendo in Francia, dove, sulla scia di Minneapolis, le sommosse sono scoppiate: in molti, anche nel mondo del cinema da Mati Diop a Ladj Ly, si sono mobilitati in cerca di giustizia per Adama Traoré, giovane ventiquattrenne, morto in caserma il 19 giugno 2016, e per i molti altri che hanno subito un destino simile. «L‘odio genera odio», certo, ma qui non si tratta nemmeno solo di questo. «Volete vivere comodamente e trattarci come animali?» ha chiesto una ragazza afroamericana davanti al commissariato del terzo distretto in fiamme. «Bene state osservando cosa produce il dolore accumulato da anni e anni».

L’Odio, raggiunto il traguardo del quarto di secolo, con la rabbia che brucia nel mondo, è ahimè oggi più giovane che mai.

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