Viaggio a Tokyo, di Yasujiro Ozu

Torna in sala, solo per un giorno, il capolavoro di Ozu. Cinema astratto, eppure di una commozione irraggiungibile, tutto di sentimento, libertà, cuore e gentilezza. Ciclo a cura della Tucker Film

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È Kohei Oguri, se non ricordo male, a sottolineare come il cinema di Ozu rifiuti l’idea di conflitto. A partire dal modo stesso in cui costruisce le scene di dialogo tra i personaggi, le dinamiche dei loro rapporti. Nessun raccordo di sguardi, quindi nessuna linea di tensione, nessuna traiettoria di scontro che permetta di delineare posizioni di forza. Ma campi e controcampi che si articolano sugli sguardi in macchina, sulla neutralità di una prospettiva centrale, in cui sembra quasi che la macchina da presa faccia da intermediario, da cuscinetto. E noi con essa… quasi a esser testimoni di un rituale, di una cerimonia. È l’apoteosi del discorso indiretto.
Ma, in ogni caso, non si può parlare esattamente di assenza di conflitto. Rifiutarne l’idea non equivale a negarne l’esistenza. Come se questo fosse un mondo già pacificato. In realtà, il conflitto c’è, ma resta inespresso, viene congelato nella gentilezza di una forma impeccabile. Gli inchini, i sorrisi, i complimenti, tutti i convenevoli dell’etichetta tradizionale: ogni comportamento sembra raccontare una specie di reticenza, è un modo per dissimulare la realtà dei pensieri più dolorosi e oscuri, per evitare il rischio delle ferite e della resa dei conti. Ma ciò non toglie che ci sia tutto un turbine di idee e sentimenti che cova dentro, un abisso che rimane nel non detto, al di sotto della soglia dell’espressione, come disarmato.
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Il cinema di Ozu è potenzialmente devastante. E Viaggio a Tokyo potrebbe esserne l’arma di distruzione di massa: il senso della morte incombente, le aspettative deluse dei vecchi e il cinico e opportunistico egoismo dei giovani, la trasformazione mostruosa del tessuto urbano che va di pari passo al cambiamento antropologico. Resta solo la forma, ma ormai è come svuotata, slegata dalla carne e dalla concretezza delle cose. Shige che chiede gli abiti della madre subito dopo il funerale e l’indifferenza agghiacciante di Koichi, Keizo che corre alla sua partita di baseball. Il tempo delle lacrime dura un istante. E tutto appare in caduta libera. “La vita è deludente”, sentenzia la cara e dolce Kyoko. “”, le fa eco la gentile Noriko, con un sorriso che sembra la sentenza di una condanna a morte.
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C’è motivo di disperarsi. Eppure Ozu resta imperturbabile. Perché se c’è qualcosa che manca nei suoi film, è la tragedia. Il dramma si annulla nella consapevolezza di una verità più profonda, per cui ogni cambiamento non produce frattura, non è una crisi, ma un semplice istante nel movimento indifferente dell’eterno. Nonostante il tempo che passa, nonostante la morte e il dolore, la vita continua indisturbata. E continua proprio perché quel passare, quel morire, quel soffrire ne sono parte integrante, semplici sezioni del suo moto ondoso. Gli zoccoli sul selciato, uno sferragliare di treno, un soffio di vento che fa tintinnare un campanello… ogni rumore rompe il silenzio e torna nel silenzio, ogni attraversamento, ogni passaggio riempie il vuoto e lascia il vuoto. Le sezioni del moto esistono, ma non rimangono, sfumano nella complessa armonia del movimento. È per questo che Ozu contiene tutto, il germe di ogni cosa che verrà, come dicevamo, dalla rabbia più lacerante alla calma della contemplazione. Da Wakamatsu a Oguri appunto. Il suo è un cinema che sembra conservatore, eppur possiede la gioia della rivoluzione che distrugge e reinventa i codici del linguaggio. È un cinema astratto, eppure di una commozione irraggiungibile, tutto di sentimento, libertà, cuore e gentilezza, come giustamente intuisce Yamada nel suo meraviglioso remake che fa resuscitare il fantasma di Shoji, “il figlio morto”. È un cinema pudico, ma che si denuda e si svela, tutto in soggettiva, proprio perché potenzialmente fatto di mille soggettive. E ci tocca, proprio perché ci guarda in ogni istante, ci chiama in campo.
C’è stata un’alba bellissima” dice Shukichi, come se stesse pensando ad altro. Si volta con Noriko e un raccordo sull’asse li riscopre in uno sguardo che li abbraccia, in un mondo più grande.
Se oggi, a sessant’anni di distanza, volessimo cercare l’immagine più lucida ed esatta di questa visione, potremmo forse trovarla in Kore-eda, in quello splendido istante di Father and Son, in cui l’auto incrocia il dosso e l’inquadratura si alza e si abbassa. Come a seguire un respiro, un battito cardiaco, il ritmo stesso della vita.

 

Titolo originale: Tokyo Monogatari

Regia: Yasujiro Ozu

Interpreti: Chishu Ryu, Chieko Higashiyama, Setsuko Hara, Haruko Sugimura, So Yamamura, Kuniko Miyake, Kyoko Kagawa

Distribuzione: Tucker Film

Origine: Giappone, 1953

Durata: 136′

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