VIAGGIO IN ITALIA – Giacomo Abbruzzese, empatia con l'orizzonte


Ecco un giovane filmmaker italiano che sfugge alla prassi del diario e cerca il suo spazio nell'altrove. Tra Canada, Palestina e Fiandre, un percorso che lavora per liberare luoghi e immaginario da ogni occupazione. Con i suoi cortometraggi, "Archipel” (premiato a Torino 2010) e “Fireworks”, sta facendo parlare di sé nei festival internazionali. Di questi lavori e del suo percorso abbiamo parlato con lui

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Ci sono filmmaker che imparano da subito a scrutare l'orizzonte per trovare le coordinate della loro realtà, filmmaker capaci di sfuggire alla prassi del diario, perché intuiscono che è nella proiezione nell'altrove che possono definire davvero il loro perimetro ideale. Nello scenario italiano più (o meno) giovane non sono troppi, ma non mancano e corrispondono all'esigenza sempre più forte di spiazzamento della nostra realtà fuori dal microcosmo che le compete.

Giacomo Abbruzzese
è uno di questi: coi suoi ventotto anni si muove tra Parigi e il resto del mondo, provenendo da una tensione mediterranea che lo porta a un umanesimo globale, ma non globalizzato. Il punto di fuga è infatti Taranto, dov'è nato, nel cuore del Mediterraneo, ma la prospettiva della sua (form)azione lo spinge tra gli estremi nord delle Americhe (il Canada, Montréal per la precisione) e dell'Europa (Turcoing, nelle Fiadre, al confine tra Francia e Belgio) e l'estremo sud della Palestina. A pensarci bene un po' tutti territori “fantasma”, in cui il concetto di radici e identità è un conflitto perenne tra tempo e storia, tra appartenenza e riconoscimento, tra confini e lingue… Esattamente dove si collocano Archipel (2010) e Fireworks (2011), i due cortometraggi che stanno facendo conoscere Giacomo Abbruzzese sulla scena internazionale dei festival (da Oberhausen a Montréal, da Belo Horizonte a Clermont-Ferrand e Dubai, per non citare che i principali), partendo dal Torino Film Festival, che lo ha visto per due anni nella sezione “Italiana.Corti” (l'anno scorso vincitore). Entrambe opere che lavorano sul concetto di liberazione dai limiti, dalle barriere, dai confini, che elaborano un vissuto partecipe e conflittuale con la linea dell'orizzonte nel tentativo – riuscito – di svincolare l'immaginario di un territorio dalle ombre che lo occupano.

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Scendendo nello specifico, Archipel è la storia di un giovane palestinese alle prese con i mille varchi e check-point di Gerusalemme, un itinerario a seguire i percorsi (reali) di un ragazzo che per tornare a casa attraversa la rete fognaria di una città occupata; scorci notturni, frammenti di incontri, attese, appostamenti, figure che svicolano in una dimensione quasi trasognata, dove l'occlusione topografica della città militarizzata corrisponde all'occlusione di un orizzonte visuale ed esistenziale occupato nello spirito, prima ancora che nella realtà. È da dire che per Giacolo Abbruzzese la prospettiva palestinese non ha radici ideologiche, ma è atto ideale di un coinvolgimento che nasce dalla prassi quotidiana di un ragazzo che (come ci spiega nell'intervista che segue) in Palestina ci era arrivato per lavoro, imparando a viverci prima di raccontarlo. La prassi espressiva, invece, veniva da lontano, da una sua sensibilità visiva capace di lavorare nella scanalatura tra il gioco concreto delle relazioni e le prospettive mentali dello spazio, scovando labirinti nei rettilinei in fuga prospettica di un immaginario di limpida ma non ingombrante caratura cinematografica.

Lo dimostrano i due corti precedenti di Abbruzzese, con le loro blande ma evidenti pulsioni nouvelle-vague: il già notevole Droga Party (2006), che smargina Torino nella claustrofobia di un nascondiglio in cui tre ragazzi attendono una via di fuga da una qualche implicita minaccia, tensione onirica diffusa e già chiara insistenza sul tema dell'orizzonte da liberare, sulla persistenza dello spazio come punto di contatto tra realtà e immaginario; e il successivo Passing (2007), che accompagnava le attese d'amore e le derive filmiche di un ragazzo in bilico su una Bologna sfuggente, lavoro non meno sbilanciato nella sua dimensione mentale, anche se ancorato alla volontà di omaggiare il primo Godard.
Infine Fireworks, giunto al termine dei due anni trascorsi da Abbruzzese a Le Fresnoy, cronaca ideale dell'azione di un gruppo internazionale di attivisti ecologisti, che la notte dell'ultimo dell'anno fanno esplodere l'intero siderurgico tarantino (il più grande d'Europa), liberando la città da un mostro di fumo e acciaio che ne occupa l'orizzonte: altro lavoro che va in dissolvenza incrociata tra realtà e immaginario, scritto nella sovrapposizione tra i fuochi d'artificio di capodanno e l'artificio delle esplosioni che abbattono le ciminiere nel campo lunghissimo dello skyline. Qui Abbruzzese lascia libero del tutto il suo sguardo, scova la sacralità del gesto estremo e la giocosità dell'atto militante (l'ambiguità semantica del graffito “SANS AVENIR”/“SENS A VENIR”), incide concretamente lo spazio della (sua) città andando a toccarne la ferita. La narrazione resta chiusa in se stessa, non smargina mai nel racconto, ma si trattiene nella locuzione filmica di un concetto che sta tutto nel rapporto mentale empatico tra il mostrare e il mostrato.

Dopo tanto girare tra Canada, Palestina e Francia, con Fireworks sei infine tornato a raccontare l'orizzonte tarantino, dal quale sei partito, occupato dal mostro d'acciaio del siderurgico. E' un tributo – di liberazione – che paghi al tuo immaginario occupato, o è l'esigenza di un giovane filmmaker militante di affrontare e di raccontare quel mostro al mondo intero?

Ho cominciato sei anni fa a lavorare su un progetto di film sul siderurgico di Taranto. A raccogliere informazioni, dati, testimonianze. All'epoca ne ero davvero ossessionato, anche perché c'era un vuoto informativo e un totale disinteresse a livello nazionale e europeo. Era come se il mostro chiamasse un film mostro. Scrissi una prima sceneggiatura circa quattro anni fa, era per un lungometraggio ed aveva un taglio decisamente più documentaristico. Avevo l'affanno di dover raccontare nei dettagli quanto di incredibile e scandaloso fosse accaduto e continuasse ad accadere nella mia città. Di Taranto comprendi pienamente la sua tragicità solo dopo che l'hai abbandonata. Ed io ero nel pieno di quella febbre. Poi – fortunatamente – il caso Taranto è esploso a livello nazionale, sono stati girati film, documentari, servizi televisivi. A quel punto non sentivo più il bisogno di affrontare la questione negli stessi termini. Ma volevo lavorare su un'immagine presente nell'immaginario di tutti i tarantini. Quella dell'esplosione del siderurgico. Partendo da questa immagine, una veduta dove l'orizzonte di Taranto viene riscritto, ho costruito una storia. La storia del gruppo internazionale di ecologisti che sceglie la lotta armata.

È interessante l'idea di far confluire nel perimetro tarantino personaggi che rappresentano forme di resistenza in giro per il mondo.

Volevo aprire Taranto al Mediterraneo, alle sue pulsioni, introducendovi delle figure in un certo senso mitologiche, degli angeli pasoliniani: un palestinese, una greca, un francese. Credo che per certe questioni sia importante una base di lotta e una capacità di internazionalizzare la lotta. I cinque personaggi racchiudono un po' quest'idea. Poi mi hanno sempre affascinato le storie di chi ha sposato una rivoluzione lontana, la causa di un popolo oppresso a migliaia di chilometri di distanza. L'utopia della rivoluzione nell'altrove. C'è qualcosa di profondamente romantico, talvolta anche ingenuo, ma di umano e generoso. Volevo che l'altrove per gli altri fosse la mia Taranto.

L'intreccio di lingue sulla scena del film è un aspetto coraggioso e interessante, perché rimanda all'idea di un linguaggio universale del riscatto.

Non avevo voglia di far parlare tra loro i rivoluzionari in inglese o in italiano. Far parlare ognuno nella propria lingua era un modo per raccontare qualcosa della loro origine diversa. Poi mi permetteva di far entrare lo spettatore nel mondo del film, in una realtà verosimile ma con una piccola dose di impossibile. È la giusta distanza rispetto al film.

Il tuo film racconta un atto estremo e simbolico, raffigurandolo come un atto di fantasia, quasi uno spettacolo pirotecnico sul far dell'anno nuovo… La tua è una ricerca di riscatto che cerca la sua forza nell'immaginario, sembra quasi tu voglia dire che per cambiare le cose sia necessario agire concretamente, ma anche esser capaci di immaginare un'alternativa…

Prima ancora di essere un problema reale – il ricatto del lavoro contro la chiusura della fabbrica – il siderurgico pone un problema di immaginario. Di immaginare un'altra città prima ancora di immaginare una nuova economia. Avevo voglia di regalare alla mia città l'immagine della distruzione del siderurgico. Una distruzione ovviamente pirotecnica, cinematografica. Fireworks è un film che utilizza la grande forma, lo spettacolare, per competere sul piano estetico con qualcosa di immenso come l'Ilva. Che si inscrive nel paesaggio di Taranto con un eccesso di orrore mortifero e di bellezza industriale.

Fireworks nasce come produzione conclusiva del tuo percorso formativo presso Le Fresnoy, il prestigioso studio francese delle arti contemporanee. Puoi dirci qualcosa a riguardo?

Quando ero uno studente al Dams di Bologna andavo spesso al Festival Officinema a vedere la sezione delle scuole di cinema internazionali per capire quale potesse essere la più adatta al cinema che mi interessava fare. Due mi colpirono in particolare, le Fresnoy in Francia e la Mediaschool di Lodz, in Polonia. Decisi di tentare il concorso al Fresnoy prima di tutto, sia perché aveva delle tasse di iscrizione molto basse, sia perché prevedeva un percorso di soli due anni, tutto incentrato sulla produzione artistica e meno sulla didattica. E poi il Fresnoy ha la qualità di essere estremamente internazionale e eclettico, con giovani artisti provenienti da orizzonti molto diversi. All'epoca mi sembrava qualcosa di difficilissimo e allo stesso tempo decisivo per il mio percorso. Con mia grande sorpresa, mi selezionarono.

Del resto Fireworks nasce quasi come un controcampo di Archipel, che era girato a Gerusalemme, una città occupata dai militari tanto quanto una città come Taranto è “occupata” dall'industria. In entrambi i casi si tratta di impossibilità – e dunque necessità – di liberare l'immagine e l'immaginario della città.

Sia in Fireworks che in Archipel l'aspetto per me più politico è il fatto di aver scelto in larga parte come location delle zone sotto occupazione militare o industriale, in molti casi vietate all'accesso o dove è severamente vietato girare, registrare immagini. Magari chi non conosce Taranto o la Palestina non può saperlo direttamente, ma percepisce comunque le ferite, il senso di rovina che c'è attorno ai personaggi. Nel corso delle riprese gli stessi attori e tutta l'equipe vivono una situazione di stress estrema che costringe tutti alla più grande concentrazione e rapidità. Con gli attori in Archipel e Fireworks riesco a ottenere una presenza particolare, un'intensità, anche grazie a questo contesto. La stessa scelta degli attori è legata talvolta alle location che scelgo. Preferisco scegliere, per esempio nel caso di Archipel, un attore palestinese che veramente ha nel suo quotidiano la necessità di entrare illegalmente in Israele.

Se in Fireworks metti all'opera un gruppo d'azione ecologista, in Archipel giocavi sul classico McGuffin mettendo in mano al giovane palestinese, che attraversa Gerusalemme tra percorsi segreti e check-point, un pacco sospetto, che in realtà si rivela del tutto innocuo. In entrambi i casi lavori sullo spiazzamento tra ciò che accade e ciò che si immagina possa accadere e, soprattutto, sull'idea di liberare l'immaginario della città.

Fireworks gioca con una dimensione spettacolare della messa in scena, mentre Archipel volevo fosse un film estremamente minimale, con una storia molto semplice, che mi permettesse di attraversare dei luoghi “dannati” dall'occupazione ma anche dei luoghi che amavo, perché forse alla fine si filma solo ciò che si ama e si odia. Ogni location doveva però essere capace di investire lo stato emotivo del personaggio e l'idea drammatica di Archipel. Il protagonista è un ragazzo, Abed, che è costretto a cercare continuamente dei punti di ingresso e dei punti di uscita, fino a perdersi in un territorio – la Palestina Arcipelago – che egli stesso non riconosce più, che ha subito una mutazione tale da diventargli ignoto.

Puoi raccontarci brevemente il tuo percorso? Come sei giunto ad aprire i tuoi confini? Come sei arrivato a studiare e lavorare in Palestina, in Francia e ancora altrove?

Mi ha sempre affascinato il nomadismo, penso che nascere in un posto come Taranto piuttosto che a Roma o Parigi possa portare ad avere paradossalmente degli orizzonti più ampi, a prendere la propria città come un punto di partenza e non come una base perenne. I miei primi spostamenti in Francia e in Canada sono stati possibili grazie a delle borse di studio. La Palestina invece è arrivata quasi per caso, subito dopo la mia laurea. All'epoca ero da poco a Berlino, quando ricevetti la telefonata di un produttore che mi chiedeva se volessi andare come aiuto regia su un documentario da girare tra Israele e Palestina per due settimane. E' stata un'esperienza sconvolgente, che mi ha aperto un orizzonte totalmente nuovo. Mi sono chiesto come si costruisse la mia conoscenza dell'altro e quanto fosse profondamente inquinata dalla gestione delle informazioni. Decisi di trasferirmi lì e passare circa un anno e mezzo tra Betlemme, Ramallah e Gerusalemme Est. La Palestina mi ha insegnato a guardare di nuovo il reale. Prima viaggiavo in una bolla di citazioni altrui e di fantasmi personali, totalmente sconnesso e incapace di guardare con i miei occhi e di ascoltare qualcosa di inaudito. Bisogna sviluppare uno sguardo straniero suoi luoghi che amiamo per poterli raccontare.

Prima di questo tuo percorso fuori dall'Italia, ci sono due altri cortometraggi – Droga Party e Passing – che già mostrano la tua propensione al raffronto istintivo con una dimensione mentale della messa in scena, tutto proteso verso una narrazione che utilizza la realtà come scenario immaginario, in cui fatti concreti ed eventi esistenziali scontornano empaticamente nella condizione intima dei personaggi.

In entrambi i miei cortometraggi precedenti ci sono sicuramente delle fascinazioni e delle problematiche che continuo a sviluppare in Archipel e Fireworks. Per esempio Droga Party è organizzato attorno all'idea di un sogno senza un unico sognatore, collettivo, come in un musical. Solo che in Droga Party – tranne in una scena – nessuno balla o canta. Ma è un film molto coreografico, come Fireworks. Poi anche in Passing come in Fireworks c'era l'idea di un film “fatto di cocci”, molto eterogeneo nelle sue parti e nelle sue scelte stilistiche. Droga Party e Passing sono però più dal versante delle immagini mentali, del sogno e della memoria. Mentre Archipel e Fireworks si confrontano di più con la realtà, tentandone una riscrittura.

 

 

 

 

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