VIII ASIAN FILM FESTIVAL – Stanley Kwan, tutto lo spazio-tempo del cinema

everlasting regret, kwan
La retrospettiva proposta dall’Asian Film Festival è un’occasione unica per conoscere il lavoro di uno dei giganti del cinema contemporaneo, sicuramente uno degli Autori più importanti oggi in circolazione e, ahinoi, sconosciuto nel nostro paese

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everlasting regretChe la figura di Stanley Kwan sia pressoché sconosciuta al nostro pubblico, è uno dei più grandi peccati imputabili alla distribuzione italiana: quello di Kwan è infatti cinema assoluto e prezioso, profondamente radicato nella cultura cinese (il regista nasce a Hong Kong, nel 1957) e allo stesso tempo influenzato dal cinema occidentale di maestri come Ophuls e Antonioni, in grado di rappresentare lo strazio degli amori, delle passioni e dei corpi come nessun altro dei suoi contemporanei (anche se il suo stile è stato spesso associato a quello di un Wong Kar wai, erroneamente). Figlio di quel movimento straordinariamente rivoluzionario che è stata la New Wave hongkonghese a partire dalla fine degli anni Settanta, Kwan muove i primi passi come aiuto regista per nomi come Jackie Chan, Ronny Yu e Patrick Tam, fino all’esordio prodotto dalla storica Shaw Brothers (con la commedia romantica Women). Ma è con il terzo film che la sua carriera compie un clamoroso balzo in avanti: nel 1988 Jackie Chan gli produce Rouge, straordinario lavoro sui generi, sperimentale commedia romantica che sposa allo stesso tempo il soprannaturale e il melò; Rouge è la storia di una prostituta suicida degli anni trenta che si ritrova ad interagire con una stanca coppia moderna degli anni ottanta, ed ha per protagonisti due tra le star indiscusse del cinema di Hong Kong, Leslie Cheung e Anita Mui. Rivedere Rouge oggi è un’esperienza ancora più dolorosa e devastante (Cheung e la Mui sono scomparsi entrambi nel 2003, suicida il primo e a causa di un tumore la seconda), testimonianza di un cinema che, a solamente vent’anni di distanza, non esiste più. Per Kwan questo film rappresenta anche l’inizio di una riflessione sul doppio e la dualità che lo accompagnerà spesso e volentieri nel corso della propria carriera: la Hong Kong del passato è calda, sontuosa, messa in scena attraverso morbidi carrelli e piani sequenza, in contrapposizione alla città fredda e insensibile di oggi. Anni più tardi, Kwan riprenderà la stessa struttura per Red Rose, White Rose (1993), sontuoso melodramma su un uomo diviso tra un matrimonio freddo e un’accesa avventura extra coniugale (le due rose del titolo sono appunto le due donne). Ma il film più rappresentativo del regista è senza dubbio Center Stage (1991), il suo

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rouge, kwan capolavoro nonché uno dei biopic più originali di tutta la storia del cinema di Hong Kong e non solo: vita e morte (ancora per suicidio) di Ruan Lingyu, star del cinema muto di Shanghai scomparsa nel 1935 e magnificamente interpretata da Maggie Cheung. Un’opera difficile da raccontare, frammentata e complessa, in grado di mescolare senza soluzione di continuità fiction, documentario e spezzoni dei film recitati dalla vera Lingyu: Kwan e la sua troupe entrano più volte nel film interpretando loro stessi, intervistando la Cheung sulla complessità del suo personaggio e regalando quella che forse è la sequenza più rappresentativa e bella del film (e di tutto il cinema di questo straordinario autore), nella quale in una scena di pianto la Cheung non si interrompe dopo lo stop dato da Kwan, ma abbandona il ruolo e interpretando se stessa continua a singhiozzare mettendo in luce il “vero” set. Per questo ruolo l’attrice viene premiata al festival di Berlino ma la pellicola non ottiene in patria il successo meritato: forse neanche il pubblico orientale era pronto per un capolavoro tanto sconvolgente, uno dei pochissimi film biografici in grado di fare un passo indietro dinanzi alla complessità di una vita e riconoscere l’impossibilità di rappresentare un’esistenza intera nella limitatezza dello spazio e del tempo della dimensione filmica. Con il documentario Yang & Yin: Gender in Chinese Cinema (1996) commissionato dal British Film Institute per il centenario del cinema, Stanley Kwan mette a nudo decenni di pulsioni sessuali represse e passioni proibite, intervistando senza peli sulla lingua personalità come John Woo, Tsui Hark e il maestro del wuxiapian Zhang Che (in Italia è possibile vedere uno stralcio del documentario nei contenuti extra del dvd di The Killer): finalmente libero da ostruzioni e senza la preoccupazione di dover nascondere la propria omosessualità, realizza di seguito due film – Hold you tight (1997) e Lan Yu (1999) – “piccoli” produttivamente parlando ma importantissimi per lo sdoganamento di vari tabù relativi alla rappresentazione della sessualità (anche in termini di nudi maschili); se il primo appare più leggero, libero e fresco, è con Lan Yu che Kwan realizza un’altra opera straordinaria, apparentemente solo una piccola vicenda di amori e tradimenti, matrimoni falliti e passioni gay: ma dietro l’angolo fa capolino la Tragedia e la Morte, l’impossibilità di custodire (possedere?) un’amore per sempre, la prevalenza della passione sulla Storia (sullo sfondo c’è la strage di piazza Tienanmen) nonostante quest’ultima vinca sempre e comunque. Fino a un finale, ripreso dal finestrino di un’automobile, doloroso e lancinante come pochi – nella sua semplicità – sono riusciti ad essere. Se possibile, qui lo stile di Kwan è ancora più ricco e complesso: strazianti abbracci al ralenti, straordinarie soluzioni di montaggio e rarefazioni visive (come nei titoli precedenti, più che nei titoli precedenti, i personaggi vengono filtrati da specchi, superfici luminose e quant’altro), che rendono Lan Yu l’ennesimo capolavoro del regista (oltre ad essere il suo unico titolo disponibile in dvd italiano). Il suo ultimo film ad oggi è Everlasting Regret (2005), scandalosamente passato sotto silenzio alla Mostra del Cinema di Venezia, che forse rappresenta la summa e la sintesi di tutto quanto Kwan abbia fatto e detto in passato: come in tutto il suo cinema, i suoi personaggi sono uomini e donne talmente Grandi che lo schermo non riesce a contenerli tutti, e allo stesso tempo troppo piccoli per evitare che la Storia li sommerga e li cancelli, al punto che è sufficiente una didascalia e un fermo immagine per raccontare il loro destino e la loro morte. La retrospettiva proposta dall’Asian Film Festival è dunque un’occasione unica per conoscere il lavoro di uno dei giganti del cinema contemporaneo, sicuramente uno degli Autori più importanti oggi in circolazione e, ahinoi, sconosciuto nel nostro paese.

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