Vivere e morire a VENEZIA 68

il cantiere del palazzo del cinema
Lo ripetiamo: “…Müller è riuscito a trasformare l’istituzione in un laboratorio, il museo in uno spazio aperto e vivo…”. E quest’anno, con estrema coerenza, è riuscito a restituire un’idea di cinema come contaminazione perpetua e incontrollata, sguardo sporco e sghembo capace di rimettere in discussione i più semplici meccanismi dell’apparato economico, istituzionale-spettacolare che ci domina

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il cantiere del palazzo del cinemaE’ la storia di sempre. Venezia affonda. Sotto il peso delle sue carenze strutturali croniche, del gap allucinante tra i costi da affrontare e i servizi offerti, dei lavori intrapresi e impossibili da portare a termine, il restringimento degli spazi, che sempre più assomigliano a una gabbia per gli addetti ai lavori e gli appassionati, compartimenti stagni per evitare ogni contaminazione. E intanto monta il malcontento e la protesta. Si lamentano i commercianti del Lido per i milioni di euro sprecati in progetti colossali di cui non si sentiva il bisogno. Protestano i lavoratori dello spettacolo, che dal Teatro Valle occupato fanno sentire la propria voce anche alla Mostra. Eppure il cinema, nonostante tutto, resiste e continua a espandersi oltre i confini, l’asettica zona franca delle sale, della cultura elitaria degli intenditori. Lo ripetiamo: “…Müller è riuscito a trasformare l’istituzione in un laboratorio, il museo in uno spazio aperto e vivo…”. E quest’anno, con estrema coerenza, è riuscito a restituire un’idea di cinema come contaminazione perpetua e incontrollata, sguardo sporco e sghembo capace di rimettere in discussione i più semplici meccanismi dell’apparato economico, istituzionale-spettacolare che ci domina. Un’idea che agisce a tutti i livelli, persino quelli più strettamente organizzativi. E perciò piace la scelta (peraltro già nell’aria) di eliminare le proiezioni riservate daily e di mescolare quanto più possibile stampa e pubblico. A prescindere poi dai disguidi, dalle lunghe file e dal rammarico dei critici e giornalisti delle testate più “titolate”, visto che al maggior numero di film presentati non ha corrisposto, per ovvi motivi logistici, un adeguato aumento del numero di proiezioni.

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faustMa l’idea di contaminazione riguarda soprattutto il cinema. Al punto che, pur con tutti i suoi difetti, pur nella sua programmatica freddezza, Contagion di Steven Soderbergh appare il vero e proprio manifesto di questa Mostra. “Il cinema non è una puttana”, afferma con la furia e la passione di sempre Amir Naderi, che ai nostri microfoni urla “This is not entertainment, this is shit” e conclude il suo Cut con una classifica dei cento film più belli della storia, per ribadire la necessità un cinema capace di costruire e suggerire una visione non conforme e non patteggiabile. Ma il punto è proprio questo, sa bene Naderi. Il cinema non può prostituirsi, ma non può neanche chiudersi in un’elitaria e fantomatica concezione d’arte, per evitare il rischio di sporcarsi le mani, di affondare lo sguardo nelle viscere (come Faust) di un mondo che cambia fin troppo velocemente. Deve guardare all’altro (e finanche Crialese, col suo cinema novella esile esile, si confronta con la paura dell’invasione barbarica dei migranti), circolare liberamente e infettarsi. Fino ad affrontare la malattia e la fine. Di un’epoca, del mondo. O anche la propria. Tutto è fine in questa 68ª Mostra. Sguardo terminale. La fine della speranza e lo scacco della politica americana secondo Clooney. La fine della famiglia di Friedkin, infettata, come sempre, dall’incontenibile propagazione virale del Male. La malattia raccontata, magnificamente, da Philippe Lioret (Giornate degli Autori) e Ann Hui. Quella che corrode i corpi, ma non l’anima e che non impedisce di creare nuove famiglie sulle macerie del dolore. L’ultimo giorno di vita di Sal Mineo, ricostruito dall’ossessione underground dello straordinario SAL di James Franco. Oppure l’ultimo giorno della Terra di 4:44 Last Day on Earth, film che ha diviso anche la nostra redazione, ma che sembra raccontare con amara rassegnazione una personale crisi di astinenza, un disperato bisogno di appoggiarsi ancora a qualcosa o a qualcuno. O ancora lo spettro della tragedia imminente in A Dangerous Method, di toutes nos enviesCronenberg che agita e corrode la superficie conforme della nostra cultura. Al pari di Carnage di Polanski, gas esplosivo di rabbia, ansia e insoddisfazioni represse che invade e soffoca lo spazio chiuso di un appartamento ‘domicilio coatto’ borghese e civile. Sino al nichilismo distruttivo del protagonista di  People Mountain People Sea, il film a sorpresa di Cai Shangjun, fin troppo ignorato dalla critica. E alla cupa constatazione dell’impossibilità di amare e ritrovarsi nella follia della globalizzazione, che Johnnie To ci consegna con il vertiginoso Life Without Principle. Questa sfida del cinema al mondo, probabilmente, non è stata del tutto compresa e accolta dalla giuria presieduta da Darren Aronofsky (e composta da Todd Haynes, André Téchiné, Mario Martone, David Byrne, Alba Rohrwacher e Eija-Liisa Ahtila). Fa senz’altro piacere il Leone d’oro a Sokurov, ma si tratta di una scelta in qualche modo annunciata. Il suo avvolgente e ferocemente vitale Faust è ancora cinema che si contamina, affonda le radici nella pittura e la letteratura e ci racconta, al pari di Killer Joe, l’insinuarsi profondo del male. Ma avremmo, forse, preferito scelte che dessero spazio a un cinema capace di costeggiare pericolosamente il mainstream, per scuoterlo e farlo esploderlo dalle fondamenta. Friedkin, To, Ann Hui, finanche Ami Canaan Mann, ribelle figlia d’arte che racconta l’ambiente che corrompe l’anima… Cioè quel cinema a cui Venezia ci ha abituato in questi anni di The Hurt Locker  e Road to Nowhere. Nulla da dire sugli attori: Fassbender, tra Shame di Steve McQueen e A Dangerous Method, è stato un grande protagonista di questo festival e Deanie Yip è irraggiungibile nel metter in gioco (pericolosamente appunto) il proprio corpo in A Simple Life. Sacrosanto il premio Mastroianni ai due giovani protagonisti di Himizu di Sion Sono, altro cinema virale. Più perplessi ci lasciano il Premio della giuria a Crialese e ancor più il riconoscimento alla sceneggiatura di Alpis di Yorgos Lanthimos. Ma i premi ufficiali, si sa, lasciano il tempo che trovano. Quello che conta è che, ancora una volta, questa Venezia ci ha offerto una visione del mondo e del cinema coerenti e non conformi. Dal glam di Madonna all’ennesima impresa di Lav Diaz. Visioni doppie, allucinazioni necessarie, sguardi ‘altri’, come in Kotoko di Shinya Tsukamoto, giustamente premiato dalla giuria Orizzonti presieduta da quel folletto geniale di Jia Zhang-Ke. False piste che si riavvolgono, si sfiorano e si perdono, come in Johnnie To, sempre più capace di raccontarci le sue e le nostre ossessioni. Abbiamo guardato in faccia il nulla. Ma il cinema continua a propagarsi e a replicare il suo incanto. Il sublime artificio di Ching Siu-tung e The Sorcerer and the White Snake. O la speranza, invincibile, di Jonathan Demme, che ancora confida in un cinema e in un’umanità che resistono. Müller ci ha raccontato la sua Morte a Venezia. Dopo di lui, la fine? Staremo (ancora) a vedere.

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    13 commenti

    • sarà pure esile esile, ma almeno Crialese è uno dei pochi in Italia ad avere talento visionario, a saper ragionare sulle immagini. Altrimenti vi meritate la Comencini tutta la vita.

    • perchè accontentarsi? Perchè se Crialese fa film appena sufficienti lo si deve difendere per forza solo perchè gli altri sono impresentabili? Se il suo film non è pienamente riuscito lo si deve dire comunque…altrimenti in Italia si ragionerà sempre sull'accontentarsi del meno peggio…e così non va

    • sono d'accordo. Il film di Crialese ha anche degli elementi interessanti e non è dubbio che il suo stile sia fortemente riconoscibile. Resta però ancorato a una dimensione poetico-sociale che sembra impossibile scrollarsi di dosso. E a una sorta di autocompiacimento stilistico a volte irritante. Va detto che il film è ben altra cosa dagli altri italiani visti a venezia, quindi la distinzione è opportuna. Ma non deve essere un alibi per fare film sbagliati.

    • Non si tratta di accontentarsi: io il film me lo sono goduto, e l'ho trovato molto meno manicheo rispetto a quanto letto in giro. Anzi, a dirla con il critico del NY Times, il film di Crialese va molto più in profondità rispetto alle apparenze: il tema dell'immigrazione è solo la buccia esterna, dentro c'è molto altro, soprattutto lo scontro tra arcaismo e modernità, tra vecchio e nuovo. Ma noi italiani se possiamo massacrare chi ha un minimo di talento non ce lo facciamo ripetere due volte…

    • Aggiungo: basta vedere cosa hanno scritto certi giornali, secondo cui Muller si sarebbe sp…andando da Aronofski a supplicarlo di dare un premio a Crialese, non si sa bene perché poi…roba da pazzi…solo i (pfui) giornalisti nostrani possono inventarsi robe dl genere…Mettere nel conto che 'forse' il film può anche essere piaciuto non li sfiora nemmeno…

    • che motivo avrebbe poi Muller di spingere un film italiano alla giuria? Forse è solo che Crialese fa un cinema che piace ai cineasti come Aronovski, la cui filmografia e' tutt'altro che impeccabile!

    • Alla mia prima esperienza al festival posso dire che il livello di tutti i film visti, tranne uno o due pellicole, è alto. Se basta una selezione di qualità per definire Muller un buon direttore allora è decisamente promosso. I prezzi sono non accessibili, ma bisogna capire fino a che punto le cifre esose sono arbitrarie o giustificabili con le spese di gestione. la foto principale dell'articolo che ritrae un progetto sospeso per presenza di amianto ha tutta l'aria di essere una occasione mancata.

    • per quanto riguarda le dietrologie sull'assegnazione dei premi è ovvio che ogni soggetto pensante possa avere il sospetto di accordi occulti. Si è liberi di pensarlo, ma ogni giuria porta con sè il dubbio di emettere un giudizio alternato (soprattutto dinanzi a interessi economici). Nell'ignoranza delle vere motivazioni, condannata a rimaner tale, si può essere pessimisti e cercare di trovare comunque una meritocrazia tra i film premiati. in ogni caso crialese non è un film mediocre a mio avviso.

    • Sono d'accordo con No Nukes, il film di Crialese colpisce al cuore, è morale ma non moralista, ha personaggi indimenticabili – il ragazzo sopra tutti – e stile non banalmente televisivo. Può darsi che ci fossero film migliori in concorso, ma i discorsi complottistici sul premio fanno davvero cadere le braccia

    • concordo quasi in tutto con Mary, ma attenti a usare frasi come "banalmente televisivo" perchè dipende di che televisione parliamo. Se di quella italiana ok, ma se parliamo delle serie americane tv, di banale non ci sta proprio nulla (e i nostri registi e sceneggiatori ne avrebbero da imparare!).

    • concordo quasi in tutto con Mary, ma attenti a usare frasi come "banalmente televisivo" perchè dipende di che televisione parliamo. Se di quella italiana ok, ma se parliamo delle serie americane tv, di banale non ci sta proprio nulla (e i nostri registi e sceneggiatori ne avrebbero da imparare!).

    • concordo quasi in tutto con Mary, ma attenti a usare frasi come "banalmente televisivo" perchè dipende di che televisione parliamo. Se di quella italiana ok, ma se parliamo delle serie americane tv, di banale non ci sta proprio nulla (e i nostri registi e sceneggiatori ne avrebbero da imparare!).

    • SONO STATO AL FESTIVAL PER UN LUNGO WEEKEND E COSì HO POTUTO VEDERE LA MOSTRA VISTA DALLA TV …IL PROBLEMA STA TUTTO NEL GIORNALISMO…ITALIANO…COME HANNO COMMENTATO LA PREMIAZIONE? VISTO CHE C'ERA UN ITALIANO TRA I PREMIATI DOVEVANO SOTTOLINEARE LA DELUSIONE PER CLOONEY E POLANSKI…AL POSTO DI DELUSIONE PER L'ITALIA CHE ORMAI E' QUASI D'OBBLIGO SENTIRE NEI RESOCONTI DAI PSEUDOINVIATI! DIETROLOGIE DIETRO AL PREMIO A CRIALESE SONO IMABRAZZANTI PER CHI LE SCRIVE E LE SOSPETTA E CRIALESE NON DOVEVA NEMMENO RISPONDERE! PER FORTUNA ALLA FINE HA VINTO IL CINEMA E SPERO CHE MULLER CONTINUI LA SUA OPERA DI CONSOLIDAMENTO DI UN'ISTITUZIONE CULTURALE UNICA QUALE LA MOSTRA DEL CINEMA!