W for Welles – Falstaff (Campanadas a medianoche)

L’inverno del nostro scontento assume le pingui sembianze di Falstaff. Orson Welles centrifuga quattro opere di Shakespeare per proporre un altro disilluso personaggio autobiografico

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Falstaff è un ruolo che ho sempre ritenuto uno dei due o tre più grandi che ci siano in Shakespeare, e avrei voluto recitarlo almeno quattro o cinque volte, perché ci sono almeno quattro o cinque modi di interpretarlo. Questo film ha sviluppato solo un certo tema. Ma ci sono molti altri modi di accostarsi al personaggio. È stato scritto che Falstaff era un Amleto mai tornato dal suo esilio in Inghilterra, diventato vecchio e corpulento. La verità di Falstaff è che Shakespeare lo capiva meglio di tanti altri grandi personaggi che ha creato, perché Falstaff era costretto a sudarselo, il suo pane. Doveva guadagnarsi quel che mangiava facendo ridere la gente. Non è che in sé fosse divertente: doveva essere divertente
Orson Welles, intervista del dicembre 1974,(“It’s all true” edizioni minimumfax).

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L’inverno del nostro scontento assume le pingui sembianze di Falstaff. Orson Welles centrifuga quattro opere di Shakespeare (Riccardo II, Enrico IV, Enrico V, Le allegre comari di Windsor) per proporre un altro personaggio autobiografico in cui proiettare le disillusioni di un cinquantunenne con un grande avvenire dietro le spalle. Oltre Kane. Oltre Quinlan. Gli occhi vispi di Falstaff scrutano tra la neve e le macerie, ancora qualche sberleffo, ancora qualche scherzo goliardico, ma l’orrore della terra desolata che si apre davanti agli occhi è un sintomo irreversibile di crisi identitaria. Lo sguardo resistente comincia a farsi arrendevole. La partita si gioca su diversi campi: gli spazi chiusi verticali della reggia di Enrico IV (John Gielgud) cosi simile ad una cattedrale le cui vetrate lasciano passare mistici raggi di luce, e quelli più claustrofobici della taverna di Madame Quickly dove l’umanità si abbandona al sesso, al bere e al millantato credito. E ancora in spazi aperti come il bosco di Gadshill dove Falstaff e compagni mescolano il bianco al nero del saio per rapinare dei pellegrini (con un travelling in mezzo agli alberi da brivido) e la battaglia di Shrewsbury nella quale pioggia fango e nebbia circondano le gesta dei protagonisti. L’idea portante dell’opera è proporre due opposte visioni della vita: da un lato il pragmatismo del potere incarnato da Enrico IV, dall’altro l’anarchia del libero arbitrio individuale dell’obeso Falstaff affetto da bulimia affabulatoria e mistificatoria. Il principe Hal (Keith Baxter) si trova tra questi due mondi e deve scegliere: continuare a giocare a nascondino o indossare la corona del padre? Orson Welles gira in bianco e nero esaltando i contrasti secondo la lezione di Ėjzenštejn di Ivan il terribile ma in realtà nelle scene grottesche strizza l’occhio a Fellini (Il Bidone per la scena dei frati travestiti e 8 e mezzo per la citazione dell’harem a due piani con le donne che gioiosamente salgono e scendono le scale). Primi piani deformanti, impostazione teatrale della recitazione con le sfumature dei diversi accenti, i soliti grandangoli ormai marchio di fabbrica, molte riprese da terra come a privilegiare un punto di vista primitivo, legato più all’istinto che alla ragione: Welles si regala una scena esemplare nella recita della parte di Enrico IV con pentola in testa. Un falso re con falsa corona che finge di essere uno che non è (F for Fake) per provare a vedere l’effetto che fa: ma è proprio la messa in scena teatrale a rivelare la vera natura di Hal, pronto a rinnegare l’amico gradasso che lo mette in guardia con la promessa di un futuro tradimento ( “Se rinunci al vecchio Jack, rinuncerai al mondo intero!”- “Lo Farò!”). Non c’è consolazione per Falstaff: né il mangiare, né il bere, né le carezze della giovane Doll (Jeanne Moreau), né le risate con i compagni di merende. Quando proverà un ultimo tentativo per recuperare il rapporto con Hal ormai diventato Enrico V si sentirà umiliato e trattato come un vecchio pazzo (Gus Van Sant se ne ricorderà per il suo My Own Private Idaho quando Keanu Reeves tradirà River Phoenix).

FALSTAFF1Dal comico si passa al tragico con un semplice taglio di montaggio. Montaggio che trova la sua apoteosi nella scena della battaglia dove non ci viene risparmiata la ferocia dei duellanti. Prima la cavalleria, poi gli arcieri, infine i corpo a corpo della fanteria: Welles accelera alcune riprese creando un effetto caotico sulla percezione della battaglia. Moltissime riprese dal basso, qualche primo piano sulle urla di dolore, l’armatura strabordante di sir John che si nasconde per aspettare il momento propizio. Fino a Falstaff solo il cinema russo e quello giapponese erano riusciti a rendere credibile i combattimenti tra eserciti, con una certosina attenzione alle armi e alle disposizione degli uomini sul campo.
In Falstaff anche i ruoli di contorno sono disegnati con dovizia di particolari: oltre alla già citata Doll (Jeanne Moreau), ricordiamo il balbuziente Silenzio (Walter Chiari), il conte di Worcester (Fernando Rey) e la tenutaria signora Quickly (Margaret Rutheford). L’effetto finale è di una recita all’inizio gioiosa e spensierata (più vicina al libretto d Arrigo Boito per Verdi) che presto si trasforma in un congedo irreversibile dalla vita, una elegia invernale in La minore mentre una bara sfila in una delle rare riprese dall’alto del film. “Tutto al mondo è burla”, un Infinite Jest, ma da attori ci si trasforma velocemente in comparse: il nuovo avanza e travolge i vecchi obesi coi capelli bianchi rinnegandoli prima e dopo che suonino le campane della mezzanotte. Orson Welles ha le premonizioni del genio e pone il suo sguardo oltre i limiti della inquadratura che ormai stenta a contenerlo. Parafrasando Pasolini ed Eliot non è difficile immaginare Falstaff pronunciare questa frase sul letto di morte: “ Io sono una forza del passato e su questi frammenti ho puntellato le mie rovine”.

I know thee not, old man: fall to thy prayers;
 How ill white hairs become a fool and jester! 
I have long dream’d of such a kind of man,
 So surfeit-swell’d, so old and so profane…”
ENRICO V rivolto a FALSTAFF.

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