W for Welles – Il Processo (Le Procès)

Welles immagina il vuoto nelle macerie, ma anche la resistenza di uno sguardo: configurazione (im)perfetta di come l’idea pura possa sgomitare e farsi sguardo sul mondo travalicando il tempo la Legge

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«Dite quel che volete, ma Il processo è il miglior film che abbia mai fatto». O. Welles

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Strano destino quello de Il Processo. Il film più amato e difeso da Welles, sicuramente quello a cui è più affezionato – forse perché finalmente realizzato senza le leggendarie manomissioni dei produttori -, ma nel contempo il film più discusso dai suoi più grandi ammiratori. Bogdanovich e Truffaut in primis. Welles incontra Kafka, allora, e potremmo fermarci qui. Tante parole sono state scritte a partire da due personalità così diverse, a tratti opposte, differenze che si sentono nella figura di un Joseph K. passivo e spettrale in Kafka, arrabbiato e indisponente in Welles, ecc, ecc. Tutte analisi inevitabili, ma sicuramente già fatte, già digerite dal tempo. Il Processo, del resto, è uno dei romanzi cardine del secolo scorso, una delle più alte vette della letteratura di tutti i tempi. Di cosa vogliamo parlare, quindi?

Meglio partire da qui. Quello che mi affascinò la prima volta che vidi il film qualche anno fa (da grande ammiratore del romanzo e quindi con immensa curiosità) fu il piglio così autobiografico che Welles (in)consapevolmente mi comunicava. Perché se c’è un piccolo Joseph K. in ognuno di noi, ossia se il genio purissimo di Kafka è riuscito a scoperchiare un universo ossessivo e intimamente “novecentesco” che sarebbe entrato come un virus nelle nostre esistenze… beh, allora Welles “il primo cineasta della modernità” (Bazin docet) non poteva non cogliere la grandezza di tutto quel potenziale cinematografico. Lo straniamento e le sconfitte, la rabbia repressa e gli scoppi d’ira, l’impossibilità amorosa e lavorativa, la burocrazia e la brama di libertà, sono tutti tratti del Welles della maturità: quello impossibilitato a esprimersi nella giungla hollywoodiana e quindi costretto a errare perché marchiato da una “colpa”. Citizen Kane.

orsonLa parabola della porta della Legge, allora, non poteva che diventare l’incipit meraviglioso del film – frutto di due geniali artisti come Alexandre Alexeieff e Claire Parker che lavoravano con l’ombra degli spilli, producendo tavole animate dalle ombre, quindi la porta della Legge è già di per sé cinema fatto di fantasmi riflessi nel buio… – dettando il tempo onirico di ogni successiva inquadratura. Questo è lo smarcamento decisivo e più evidente rispetto a Kafka: se lo scrittore praghese opera a inizio Novecento immaginando un futuro abissale che pian piano entra nella carne del lettore come uno spillo; Welles opera invece negli anni ’60 a macerie compiute (la seconda guerra mondiale) e la materia su cui operare diventa solo il sogno, l’ombra dello spillo, il fantasma che ci portiamo dentro come fardello nella modernità. Dalla porta della Legge in poi, pertanto, Il Processo diventa un film dominato da porte-comunicanti, tutto confinato in interni, trionfo del piano sequenza e della profondità di campo mutata di segno: l’immagine è un carcere che imprigiona K. e gli nega il fuori-campo. E non è certo un caso che il film, rivisto oggi, catalizzi una babele di umori cinematografici: dall’Anthony Perkins hithchcokiano che è già (stato) Psycho alla Jeanne Moreau sensuale dei primi Truffaut; dalla schiera di scrivanie ne la Folla di Vidor a tutte le ombre dei noir anni ’40; dai sogni felliniani di Otto e Mezzo a molti surrealismi bunueliani, dai sotterranei ripresi in grandangolo dal futuro universo di Gilliam all’ironia edipica che ispirerà molto David Lynch. E potremmo continuare ancora: questo è il film “cinefilo” per eccellenza di Orson Welles.

2Eccola l’illusione: il film sul piccolo impiegatuccio schiacciato dalla burocrazia del nuovo-mondo, diventa imponente nella nostra percezione spettatoriale. Forse perché il “racconto” non è mai veramente di Joseph K. (abbastanza sminuito da Welles rispetto al romanzo) che qui diventa solo un testimone e mai un agente di senso, defraudato anche del “suo” monologo interiore. Chi è allora il protagonista del film? Il protagonista diventa l’istanza narrante, il Cinema: sono le luci, il setting, le innumerevoli comparse, insomma è il processo di costruzione l’unico fuori-campo dell’immagine wellesiana. Un’immagine che ingabbia e mozza il fiato, perturba e lascia scarti, si smarca da ogni aderenza al testo ma usa i nostri occhi come l’ennesima porta sul mondo. Questo film è una vertigine senza fine ma anche un freddo film-cervello: Welles è mago e avvocato nel contempo, scrivendo l’ennesimo saggio registico di una modernità sconvolgente. Il vero K. è infine Welles, allora, che combatte davanti alla porta del Cinema e crea nuove Leggi dalle sue sconfitte.

Ecco. Rivedere oggi Il processo va oltre l’ovvia curiosità di assistere all’incontro tra due dei più grossi geni novecenteschi. Perché il film che immagina il vuoto nelle macerie, configura anche la resistenza di uno sguardo al di la di ogni limite. Configurazione (im)perfetta di come l’idea pura e ferina (dalle parole di Kafka alle inquadrature di Welles) possa sgomitare e farsi sguardo sul mondo (il Novecento) travalicando il tempo e i giudizi, la Legge e il denaro, la colpa e l’innocenza, la letteratura e il cinema, così da produrre ancora senso nell’immagine intimamente umana che lascia in eredità. Oltre la morte. Questo film ingiustamente dimenticato, insomma, è di per se una preziosa Rosebaud sepolta nell’archivio immaginario delle “nostre” vite.

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