W for Welles – Io, Orson Welles, di Peter Bogdanovich, tracce evidenti di genialità

In Io, Orson Welles si ritrova la materia vivente della genialità del regista che si rivela, come sempre, irriverente umorista, dissacrante artista e vero e proprio gigantesco personaggio

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Il mio regista preferito? Jean Renoir di cui sono stato amico per 15 anni, in assoluto quello che preferisco su tutti. Orson non mi ha insegnato, da lui ho imparato di più riguardo la vita, e mi ha portato a cena a Roma.
Peter Bogdanovich, da José de Arcangelo, associazioneclaramaffei.org

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E’ un film che un po’ ci umilia perché racconta di un uomo che pensa molto più in fretta e molto meglio di noi, e che ci getta in faccia un’immagine meravigliosa quando siamo ancora abbagliati da quella precedente.
François Truffaut a proposito di L’infernale Quinlan

 

I cento anni dalla nascita di Orson Welles favoriscono, come è giusto che sia, il rincorrersi di occasioni per ricomporre la sua ingombrante figura, nonostante quanto sia stato scritto, detto e visto, del geniale regista, autore, scrittore e vero demiurgo di uno spettacolo infinito che si è espresso nel cinema e alla radio, in teatro e in tv, utilizzando il suo magnetismo naturale e il suo eclettismo privo di ogni superflua sovrastruttura.
Del Welles artista pubblico, quindi, molto sappiamo e la sua opera complessivamente valutata è stata oggetto di studi, approfondimenti critici e storici, visti da numerose e originali prospettive. Peter Bogdanovich in un ormai famoso libro – intervista ci ha rivelato, tra le pieghe del suo percorso artistico, la normalità del personaggio. Io, Orson Welles è una fluviale intervista ideata (ovviamente!) dallo stesso Welles nel 1968. Un volume essenziale, di formazione e di scoperte che equivale al lavoro altrettanto meritorio di Truffaut per Hitchcock. Io, Orson Welles finisce con lo svelare i profili ancora segreti dell’Autore e tutto emerge con naturale freschezza nella lunghissima, appassionata e apparentemente ininterrotta chiacchierata, poco accademica e molto colloquiale tra i due protagonisti. In questo clima è riconoscibile un’atmosfera di complicità, il che segna la differenza tra questa intervista e quella tra Truffaut e Hitchocock. In quest’ultima una certa aria di formalismo traspariva dalla generale impostazione tra domande e risposte. Qui, si respira un’aria differente. Welles non fa mai pesare la sua maggiore esperienza, il suo valore nel mondo del cinema del

quale era consapevole, ponendo il suo amico Bogdanovich su un piano di assoluta parità che non è formale cortesia, ma pratica reale e visibile.

Un’atmosfera che ricorda quella tra in Afternoon, film che sembra ripetere il magnetismo affascinante che pervade le pagine del libro di Bogdanovich.
Il lungo chiacchierare conduce allo svelamento di piccoli o grandi retroscena sul lavoro di Welles, rendendo manifesto il suo giudizio sulle cose dello spettacolo. Il racconto conserva la decisa e costante sfida che il suo lavoro ha sempre avuto come obiettivo artistico e nei confronti dell’establishment più articolato del mondo del cinema. Sono le parole a stabilire la distanza, a misurare il profilo del suo cinema, in altre parole, nelle risposte di Welles si legge in filigrana l’artista, il genio non dominabile, la cui complessiva vita non può essere ricondotta entro i limiti di una comune biografia, ma dominata da quelle sconfitte che oggi, ma anche all’epoca in cui il volume fu dato alle stampe, apparivano come riaffermazioni di una genialità davvero incompresa.
Tutto questo, è materia vivente nelle pagine che scorriamo di questo corposo testo. Un libro che ha in serbo altre sorprese per il lettore. Il personaggio di Welles irriverente umorista, dissacrante artista e vero e proprio gigantesco personaggio che trasforma la materia in spettacolo e lo spettacolo in eterna forma artisticaBorges

Welles con Bogdanovich e Huston

Welles con Bogdanovich e Huston

diceva: Citizen Kane durerà nel tempo come certi film di Griffith e Pudovkin – viveva anche dentro una dimensione del tutto aderente ad una quotidiana normalità, che sembra arricchire il suo essere autore di irregolare poliedricità lontano da ogni clamore, da ogni sistema di divismo industriale. Trattava l’industria del cinema con distacco, con il sarcasmo beffardo del suo volto: “Hollywood è un quartiere dorato adatto ai giocatori di golf, ai giardinieri, a vari tipi di uomini mediocri ed ai cineasti soddisfatti. Io non sono nulla di tutto ciò”. Pagò cara questa genialità che lo portava ad adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro per realizzare i suoi progetti o fare fronte alle avversità delle produzioni.
In questa sorta di profilo basso, sembra ritrovare nel lungo discorso tra lui e Bogdanovich, quel filo di comunanza che legava il suo profilo d’artista a quello dell’uomo (quasi) comune, sarcastico e beffardo anche su se stesso: Bogdanovich chiese a Welles se Ombre rosse abbia influenzato Quarto potere e alla risposta affermativa di Welles l’intervistatore: “Bè per esempio c’è un paio di soffitti bassi in Ombre rosse” e Welles rispose: “sicuro che ci sono. Spero non crederai che io pretenda di essere l’inventore del soffitto” e Bogdanovich: “Lo dice un mucchio di gente”. “Un mucchio di gente dovrebbe studiarsi Ombre rosse” risponde il regista.

E sembra non avere pietà neppure di se stesso e ce accorgiamo quando mette si a nudo

Welles, Huston e Bogdanovich

Welles, Huston e Bogdanovich

completamente. Nel 1946 aveva girato un film per la regia di Irving Pichel dal titolo Conta solo l’avvenire un mediocre melodramma ambientato durante la prima guerra mondiale. A proposito di questo film Bogdanovich a WellesPerchè hai fatto Conta solo l’avvenire?” “Per soldi. Che domanda sciocca.” A seguire “Ne hai diretto qualcosa?” E Welles “No. Mi vergognavo profondamente, ma avevo bisogno di soldi”.
In questo scambio di battute in sineddoche la misura della vita di Welles, il suo essere dentro e fuori allo stesso momento dal mondo dello spettacolo, su un altro pianeta, dentro una dimensione non sempre accettabile, anticipata sul tempo e quindi fuori tempo. Ancora oggi, come ieri, nella classicità e nella sregolatezza che è frattura di regole già conosciute. Bogdanovich con il suo meritorio lavoro ci ha svelato i segreti di un genio, ci ha anche mostrato la normalità quotidiana, le debolezze e il formarsi dell’intelligenza creativa.
Seduti ai tavolini di un caffè, a mezzanotte in una piccola piazza deserta vicino al teatro dove Orson mi ha portato a vedere Eduardo De Filippo. Capendo si e non due parole di italiano, ho resistito solo per un atto, e Orson è indignato; la sua teoria è che si può giudicare meglio la recitazione se non si capisce la lingua”.

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