Wajib – Invito al Matrimonio, di Annemarie Jacir

La regista palestinese racconta con toni agrodolci i contrasti tra un padre e figlio di Nazareth alle prese con il “wajib”, il dovere di consegnare a mano gli inviti alle nozze della figlia e sorella

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Presentato in concorso in anteprima internazionale il 5 agosto al 70° Locarno Festival (2-12 agosto 2017), dove ha ottenuto il “Premio Don Chisciotte”, il “Premio della Giuria Giovanile” e il “Premio ISPEC Cinema”, Wajib – Invito al Matrimonio è il terzo lungometraggio della quarantaquattrenne regista palestinese Annemarie Jacir (Il Sale di questo Mare, 2008; Quando ti ho visto, 2012), nativa di Betlemme, trasferitasi a sedici anni negli Stati Uniti e laureatasi in Politica e Letteratura ai Claremont Colleges in California. Prima di studiare cinema, ha lavorato come operatrice telefonica, conduttrice radiofonica, tutrice di lingua inglese, cameraman e scenografa teatrale. Successivamente assunta in un’agenzia letteraria di Hollywood, cominciò a leggere per lavoro le sceneggiature di registi e scrittori. La consapevolezza che spesso venivano prodotti film sulla base di pessimi testi letterari la spinse a tentare la carriera di regista. Quindi lasciò Hollywood e si trasferì a New York dove conseguì un master in cinema alla Columbia University. Vissuta per anni ad Amman, in Giordania, a pochi chilometri dal confine con la Palestina (esperienza che la regista stessa ha definito “un esilio”), la Jacir si è trasferita con il marito ad Haifa, dove attualmente risiede. Dopo essere stato proiettato in numerose rassegne cinematografiche in giro per il mondo ed essersi aggiudicato diversi riconoscimenti (“Premio speciale della Giuria” al BFI London Film Festival; “miglior film straniero” e “miglior attore” a Mohammad Bakri al Festival Internacional de Cine de Mar del Plata; “Gran Premio Muhr al miglior film” e “miglior attore ex aequo a Mohammad e Saleh Bakri al Dubai International Film Festival; “miglior film” al Festival International du Film d’Amiens), Wajib è passato anche in Italia al MedFilm Festival di Roma (dal 10 al 18 novembre 2017, ottenendo il “Premio speciale della Giuria” e il “Premio Piuculture”) e, più di recente, al Middle East Now Festival di Firenze ed è stato selezionato per rappresentare la Palestina agli Oscar 2018 nella categoria “miglior film in lingua straniera”, non riuscendo tuttavia ad entrare nella lista dei candidati. Il film è una produzione indipendente realizzata in Palestina con la collaborazione di numerosi paesi (Colombia, Francia, Norvegia, Germania, Qatar, Emirati Arabi Uniti e Regno Unito) ed è la prima pellicola della Jacir ad essere distribuita nelle sale italiane.

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Il rito del “dovere sociale”

 

Il wajib, in italiano “dovere sociale”, designa il tradizionale rito di consegnare a mano gli inviti alle nozze di famiglia. In Palestina, soprattutto quella settentrionale, è consuetudine che gli uomini di casa, in occasione del matrimonio di un familiare, diano personalmente le partecipazioni a parente ed amici, mentre viene tuttora considerato un atto di maleducazione spedirle attraverso le poste o delegarne la consegna. La Jacir ha raccontato che il soggetto della pellicola è ripreso da un episodio autobiografico, allorché, incuriosita da questa tipica usanza nazarena, decise di seguire silenziosamente il marito durante i cinque giorni di consegna delle partecipazioni in occasione del matrimonio della cognata.

Nazareth. Il trentenne Shadi (Saleh Bakri), affermato architetto che vive da anni a Roma, torna nella città natale a poche settimane dal Natale. Lo scopo del suo ritorno è aiutare il padre a consegnare gli inviti di nozze della sorella Amal (Maria Zreik). Il padre Abu Shadi (Mohammad Bakri) è un insegnante di scuola, in pensione e divorziato, che sulla soglia dei sessantacinque anni si prepara a restare da solo senza le cure della figlia. La ex moglie si è trasferita da tempo negli Stati Uniti, dove si è rifatta una vita e si è risposata, e la sua presenza alle nozze della figlia è in dubbio, dal momento che sta assistendo il secondo marito alle prese con un male incurabile. Mentre padre e figlio trascorrono insieme la giornata vagando di casa in casa e spostandosi per tutta la città con la vecchia Volvo di famiglia, emergono progressivamente i dettagli del loro complicato rapporto e delle loro differenti visioni di vita. Il senso di adattamento del padre, consapevole e un po’ rassegnato ai rapporti di forza che governano la quotidianità di un territorio occupato, si scontra con l’impetuosità del giovane figlio, animato da sentimenti di ribellione e di resistenza.

 

Tra suggestioni on the roadwedding comedy e kammerspiel

 

La pellicola si inserisce nel solco della wedding comedy in salsa mediorientale (genere particolarmente caro alla cineasta israeliana Rama Burshtein, La Sposa Promessa, 2012; Un appuntamento per la Sposa, 2016; ma ricordiamo anche il drammatico Mustang, 2015, acclamato esordio della regista e sceneggiatrice turca naturalizzata francese Deniz Gamze Ergüven), ma ha la capacità, e la qualità, di non risolversi banalmente in essa e di non lasciarsi etichettare in un indirizzo di stile, e di gusto, predefinito. La Jacir si muove con apprezzabile disinvoltura tra dramma ed ironia, riflessione e divertimento, denuncia socio-politica e testimonianza documentaristica, senza imboccare con decisione nessuno di questi itinerari e preferendo fare della macchina da presa un diaframma neutro ed imparziale tra lo spettatore e ciò che viene rappresentato. Efficace e funzionale a catturare il tessuto connettivo dei dialoghi e della messinscena si rivela il ricorso, da parte della regista, ad ulteriori sottogeneri e a determinate scelte di natura tecnica e concettuale, ragione per la quale interferiscono e si intersecano a più riprese nella pellicola le dinamiche del road movie urbano – buona parte del film ha per protagonista l’abitacolo di una macchina – e le suggestioni del cinema kammerspiel, in virtù della studiata calibratura degli spazi, quasi sempre esigui e raccolti, ciò che porta a porre un forte accento sul primo piano dei protagonisti e sulla percezione delle loro sfumature emotive. Movimento costante attraverso il disordine delle strade e dei pensieri e, al tempo stesso, registrazione distaccata e rigorosa, scevra da ogni giudizio o presa di posizione empatica, costituiscono le coordinate cartesiane attraverso le quali prende forma, e corpo, il tracciato formale e semantico di Wajib.

Si viene in questo modo a costituire una singolare visione cinematografica multi-strato: se la lente di ingrandimento della cinepresa indugia sull’incontro-scontro di un padre e di un figlio che si ritrovano, costretti da una tradizione secolare, faccia a faccia dopo anni di distacco, fisico ed emotivo, in un climax, squisitamente drammatico ma condito con una buona dose di humour, di incomprensioni e concezioni antitetiche che sfociano in scelte di vita radicalmente opposte, vediamo poi balenare, ad un secondo livello, i frammenti di realtà, le schegge appiccicose e appuntite della storia e dell’attualità cogente e, ancora più in fondo, delinearsi il tema dell’assenza ingombrante come ulteriore fulcro drammaturgico e come presenza invisibile con la quale fare i conti. La regista affida la denuncia delle condizioni di vita di un paese occupato quale è la città di Nazareth a marginali ma pregnanti inquadrature che servono, contemporaneamente, a smorzare o piuttosto a sovraccaricare il tono greve del confronto tra Shadi ed il padre e ad introdurre elementi che attualizzano il racconto cinematografico. La presenza dei due soldati israeliani al ristorante, l’istantanea di una soldatessa armata di fucile che attraversa la strada, i cumuli di spazzatura e di plastica che invadono androni, pianerottoli e vie, le crepe, i calcinacci e le lordure che infestano gli edifici e le strutture architettoniche sono lampi visivi che interrogano lo spettatore, oltre che i due protagonisti, fornendo ai primi un precipitato, sommario ma quanto mai reale, del conflitto israelo-palestinese e della drammatica situazione di “una delle città più antiche della Storia” e ai secondi ulteriore benzina per alimentare il loro dibattito: non abbastanza per intaccare il tono, a tratti lieve, della narrazione o per fare di Wajib un apologo etico-politico o una pellicola di denuncia, sufficiente tuttavia per far germogliare semi amari e bacche secche su un humus potenzialmente fertile.

 

Nazareth e i suoi mille volti

 

Nazareth, una città di 74.400 abitanti nel Distretto Settentrionale di Israele, nella regione storica della Galilea, con una popolazione a maggioranza araba che si divide in un 31,3 per cento di cristiani e in un 68,7 per cento di musulmani, è la terza protagonista del film: “La più grande città della Palestina storica, ora Stato d’Israele”, ricorda la regista. “È un luogo pieno di tensione perché dal 1948 i Palestinesi hanno dovuto chiedere la cittadinanza israeliana, ma sono cittadini di serie b perché non hanno gli stessi diritti degli Israeliani. Nel film a un certo punto i due protagonisti vogliono salire dove c’è un insediamento per andare a consegnare un invito ad un israeliano e quando siamo andati lì ci hanno cacciato, anche se avevamo il permesso, perché eravamo una troupe palestinese e parlavamo in arabo. Sotto molti aspetti, Nazareth è diventata oggi un ghetto. I Palestinesi che vivono in Israele sono chiamati i palestinesi invisibili: sono cittadini di seconda classe, privati di una parte dei loro diritti. Ma i loro dati demografici sono dinamici e le tensioni con lo Stato sono in aumento: costituiscono ciò che Israele chiama una minaccia demografica. Questi sono uomini e donne che si battono per i loro diritti e per delle risorse limitate. Il popolo di Nazareth possiede una grande umanità, tanto umorismo e voglia di vivere. Ma, per me, Nazareth è una città di sopravvissuti”. “Vengo da una famiglia in cui le donne parlano molto mentre gli uomini tacciono”, spiega ancora la regista. “L’automobile era un contesto intimo che mi ha permesso di far dire a due persone cose importanti che altrimenti non si sarebbero dette. Inoltre, il figlio sente la macchina come una trappola, rappresenta quel senso di soffocamento e prigione che prova tornando a Nazareth dall’estero dove ormai vive, mentre per il padre è tutto”. Saleh Bakri annota: “Nazareth ha dato ospitalità a molti Palestinesi e al suo interno c’è un quartiere che è un campo profughi enorme. È una città molto abitata dove dal 1948 non si fa altro che costruire case l’una sopra l’altra perché la terra è confiscata. C’è violenza e ignoranza, ma allo stesso tempo c’è anche amore e si ha il desiderio di avere una vita migliore”.

 

Una pellicola multi-strato

 

Altri frammenti che la cinepresa cattura provengono dalla carrellata di personaggi, tipi, situazioni, ambienti ed interni domestici disseminata lungo tutto il film a rappresentare le varie tappe, amicali o parentali, del “viaggio urbano” di Abu Shadi e figlio. Ed è a questi momenti più leggeri e descrittivi che la regista relega le nuance più esilaranti e marcatamente comiche del suo lavoro. Attraverso di essi vediamo disegnarsi sullo schermo la fisionomia di una piccola borghesia nazarena, stravagante quanto in fondo accogliente, più o meno segretamente impegnata nel condurre un tenore di vita apparentemente normale e nel coltivare le proprie ambizioni ed innocenti evasioni. Troviamo così la interior designer che addobba la casa in un Natale perenne (“Siamo o non siamo a Nazareth?”), che esibisce orgogliosa la copertina di un rotocalco di moda che parla delle sue creazioni e che vive in promiscuità con pappagalli liberi di svolazzare per casa e mordere i malcapitati ospiti (viene in mente l’immagine, metafora della libertà negata e ricostruita su scala condominiale, presente in Le Donne e il Desiderio, 2016); l’anziana parente, sorda e pigra quanto basta, schiava delle app e dei social network in un’azzeccata parodia del “west lifestyle”, che lamenta la lentezza della banda domestica e supplica Shadi di chiamare le compagnie telefoniche per cogliere al volo l’ultima, vantaggiosa promozione; la ex fidanzata del figlio e la ex compagna di classe del padre alle prese con infatuazioni mai sopite e pronte a rivivere vecchie emozioni attraverso un amplesso fugace o un “promettente” invito a casa; lo zio che ama cucinare il pesce e servirlo come si faceva un tempo presso il lago di Tiberiade e la nipote avvocato divorzista “smart, cool and amazing”, naturalmente piantata in asso dal ragazzo e felicemente (?) single; o ancora, l’appartamento vuoto di chi si è arruolato nel Dā’ish e la parrucchiera pettegola acconciata à la Kim Wilde. Ma ecco che su tutto questo – dialoghi ideologici, visite più o meno gradevoli, silenzi irritati e frammenti documentaristici – si staglia, come detto, un altro protagonista: l’assenza, un’assenza che inficia la presenza. Quella della madre di Amal e Shadi, che non compare mai e di cui neppure si sente mai la voce, e che tuttavia diventa il vero “nervo teso” del dibattito fra scelta della libertà, dell’emancipazione e, in fondo, dell’evasione e legame con il “dovere” (wajib, appunto), con le radici e con la sopravvivenza; o quella dell’ebreo israeliano e filo-israelita Ronnie, sovrintendente e “ispettore della conoscenza” alla scuola di Abu Shadi – figura realmente esistente di cui il Ministero dell’Istruzione israeliano si serve per monitorare le scuole palestinesi – che il figlio ritiene essere un agente segreto del Mossad, mentre per il padre è un buon amico da tenersi stretto, anche e soprattutto in vista di un’agognata promozione a preside; o, ancora, quella del padre della fidanzata di Shadi, che Abu Shadi addita come uno dei signori della nomenclatura palestinese, gli affiliati dell’OLP mandati in esilio da Israele ma che in realtà vivono nei privilegi, spesso anche economici, e circonfusi da un’aureola di martirio che apre loro tutte le porte a livello internazionale, mentre per il figlio è un simbolo di resistenza e di coraggio. Sono principalmente queste figure assenti a costituire il centro nevralgico dello scontro, anche generazionale, tra i due protagonisti e a veicolarne il portato concettuale, poco importa se autentico o filtrato. In effetti, lo spettatore sembra inevitabilmente indotto a schierarsi con l’uno o con l’altro, ma è la stessa scelta registica di rappresentare il loro contrasto  ad equa e debita distanza a costituire, in fondo, l’atteggiamento più sincero, in barba a qualsivoglia presa di posizione. La verità è che entrambi hanno un po’ di ragione e un pizzico di torto. Abu Shadi si è rassegnato ad accettare le limitazioni imposte alla propria libertà, a scendere a compromessi anche impopolari pur di garantire un certo benessere alla propria famiglia e sembra animato da una vocazione ancestrale al rispetto delle tradizioni e della cultura della propria terra, ciò che lo porta a non aver mai perdonato la propria ex moglie fedifraga e a raccontare, mentendo, ad amici e parenti che il figlio è medico e che presto tornerà a Nazareth per ricongiungersi alla famiglia e, perché no, fidanzarsi con una bella nazarena. La sua auto-convinzione potrebbe irritare, ma in realtà intenerisce ed è comunque figlia dei pensieri e delle aspettative di un uomo che ha scelto di affrontare guerre e privazioni, imposizioni e delegittimazioni, rimanendo in patria alla disperata ricerca di una propria identità e di un proprio ruolo sociale. Shadi, al contrario, incarna la figura del figlio ribelle e idealista – anche nell’abbigliamento e nel portamento, con i suoi capelli lunghi raccolti in uno chignon e la sua camicia rosa a fiori – la figura dell’esiliato che ambisce ad una vita libera – o, quanto meno, più vicina ad un modello occidentale – e ad una posizione sociale migliore. Un giovane “arrabbiato”, ma anche pieno di speranza. Non ha mai militato in un partito ma, crescendo, ha acquisito una coscienza politica che lo ha reso una minaccia per Israele. L’amore per il proprio paese è pari alla disillusione che lo ha portato a trasferirsi all’estero, ma la sua rabbiosa denuncia delle condizioni di vita locali appare, a più riprese, poggiata su slanci teorici e su un “romanticismo dottrinario” privo di un autentico vaglio critico e di un effettivo confronto con la realtà che ha scelto di abbandonare. Uno schema narrativo, quello del conflitto generazionale tra father and son, piuttosto paradigmatico e semplicistico, certo non originale, ma comunque “necessario”, nell’economia del film, per ricordarci dove siamo.

Ad accrescere, anche simbolicamente, la pregnanza di questo contrasto è la scelta, efficacissima, di affidare il ruolo dei due protagonisti ad attori che padre e figlio lo sono anche nella vita reale (anche in fase di doppiaggio in lingua italiana, i due protagonisti hanno la voce di un padre e di un figlio nella vita reale: Marco e Andrea Mete). Uno strepitoso Mohammad Bakri (Hanna K., 1983; Esther, 1986; Private, 2004, esordio nel lungometraggio di Saverio Costanzo e valso a Bakri il “Pardo di Bronzo” come “miglior attore” al Locarno Festival di quell’anno; La Masseria delle Allodole, 2007; I Fiori di Kirkuk, 2010) regala al suo personaggio una fittissima gamma di espressioni e di sfumature emotive e fa di Abu Shadi la figura più coinvolgente, carismatica e, se vogliamo, umana della pellicola. E siamo convinti che a ciò ha contribuito anche la sua attività di film-maker e documentarista (1948, 1998; Jenin, Jenin, 2002; Da quanto te ne sei andato, 2006; Zahra, 2009; il collettivo Water, episodio Eye Drops, 2012), che gli ha causato numerosi problemi con il governo israeliano, oltre che processi, richieste di risarcimento e minacce di morte. Il figlio Saleh Bakri – già presente nei due precedenti lungometraggi della Jacir e protagonista principale in Salvo, 2013, di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza – riesce comunque a tenergli testa con una recitazione meno istrionica e flessibile ma densa di sottintesi e risvolti umoristici. Cosa può comporre due visioni della vita tanto distanti? L’amore per la bellissima Amal, sangue del proprio sangue, certo, ma anche i ricordi legati ad una canzone ascoltata all’autoradio, nella fattispecie A Whiter Shade of Pale dei Procol Harum, e, dulcis in fundo, la visione al crepuscolo, dalla terrazza di casa, di una Nazareth quasi “presepiale”, senza tempo nel passaggio dall’ultimo bagliore di sole al primo riverbero di luna, eppure moderna nella sua luccicante illuminazione artificiale: una visione da godersi assieme, in silenzio, sorseggiando un caffè e concedendosi, per una volta senza polemiche, una sigaretta.

Titolo originale: Wajib

Regia: Annemarie Jacir

Origine: Palestina, 2017

Interpreti: Mohammad Bakri, Saleh Bakri, Maria Zreik, Rana Alamuddin, Tarik Kopty, Monera Shehadeh

Distribuzione: Satine Film

Durata: 96’

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