Whitney, di Nick Broomfield

Broomfield torna a dedicarsi alle stelle maledette e stavolta tocca a Whitney Houston. Un doc non troppo lontano da binari standard ma ricco di sequenze commemorativo/commoventi. In sala da domani

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Whitney Houston non è di certo la prima vittima del connubio fama/autodistruzione. La sua spirale, o meglio la sua vertigine, è paragonabile a quella di altri grandi: da Janis Joplin a Kurt Cobain, personaggio che lo stesso Nick Broomfield ha dipinto attraverso la tormentata relazione con Courtney Love. Forte di una poetica solida, il regista imbastisce una nave pronta all’attraversamento, sebbene la cronologia d’insieme, nel suo caos-riflesso delle turbolenze della Houston, rischi di minare la fruizione. In ogni caso non esiste una vera e propria confusione perché a Broomfield interessa rintracciare una personalità errante piuttosto che un canone rigido.

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La fine della Houston è stata preparata con lo stesso impasto di tante altre: successo precoce, famiglia invadente e succhiasoldi, marito incapace di stare al passo con la sua grandezza. Per fortuna, oltre al cartellone DIVA: concerti sold out, dischi pataccati ecc., il cineasta coglie il dilemma connaturato alla nascita. Whitney non è mai andata giù alla

whitneyblackness. Manager e industria si sono premurati che la sua fosse una voce da divertimento bianco, da salotto non troppo per bene, ma comunque lontano anni luce dai richiami del ghetto. Un canto strozzato, sempre a metà tra il “chi sono” e il “chi devo essere”; un’interiorizzazione del vestito che già in passato ha tagliato le gambe, vedi l’immortale Marilyn.

Broomfield dimostra un notevole coraggio quando nega la partecipazione di famiglia ed eredi. La sua è una cronaca di vita a latere, un castello dove le fortune si perdono nelle segrete, nelle torri, in quegl’echi quasi inudibili. Non a caso, la fedele amica della Houston, Robyn Crawford, venne allontanata da madre e marito della cantante. Il suo intervento, forse, sarebbe stato cruciale nell’epurazione dal tossico, ma si sa: è faticoso rinnegare il sangue, soprattutto quando continui a credere che il tuo scorra grazie al loro. Sta di fatto che la bella compagnia non ha mai gestito con coscienza i dollari della star, arrivando a farle causa per ben cento milioni. Il dolore e la disgrazia, così come la tenerezza di Kevin Costner che suggerisce di farle cantare a cappella le prime strofe di I will always love you, trapassano lo schermo. In particolare una sequenza, quella di un concerto, in cui Whitney invita la figlia sul palco. Una bambina terrorizzata dall’eccitazione della madre, in effetti più indotta che spontanea. Proprio lei morirà appena tre anni dopo la Houston, e rimane impressa come quella ragazzina che avrebbe voluto un abbraccio piuttosto che il giubilo e lo stupefacente.

Titolo originale: Whitney: Can I Be Me
Regia: Nick Broomfield
Origine: USA, 2017
Distribuzione: Eagle Pictures
Durata: 90′

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