Wonder Woman, di Patty Jenkins

Wonder Woman dimostra che forse la DC sta imparando a gestire l’equilibrio tra cinema e fumetto. Il film sfiora il ridicolo involontario ma accetta il rischio che ogni superhero-movie deve correre

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Di certo, la peculiarità sessuale legata a Wonder Woman è sicuramente il primo tratto distintivo che attira l’attenzione dello spettatore. Il Marvel Cinematic Universe ha una figura centrale nel personaggio di Black Widow ma l’agguerrita spia russa prestata al ciclo di The Avengers non ha mai avuto un suo film esclusivo. La DC ha caratterizzato in modo efficace il fascino di Harley Quinn ma anche la villain restava pur sempre la scombinata amante di Joker. Il dato più superficiale da cui si potrebbe partire per parlare di Wonder Woman è una centralità femminile che si riscontra anche nella prima firma di una donna alla regia di un superhero-movie. Patty Jenkins aveva portato Charlize Theron a conquistare l’Oscar con Monster ma dal 2003 in poi aveva fatto perdere le sue tracce. Il suo nome apparirebbe come una garanzia rispetto al tema della parità ma sarebbe anche l’unica traccia visibile di un argomento che rischia di avere un’importanza eccessiva. Wonder Woman potrebbe essere salutato come il primo passo della DC verso un’autonomia rispetto al cinema che la Marvel ha conquistato da tempo.

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Finora, il ciclo che era iniziato con il controllo totale di Zack Snyder ha pagato un vincolo troppo rigido con il tempo ristretto della produzione hollywoodiana. Dawn of Justice si affrettava a chiudere la rivalità tra Batman e Superman quando in realtà avrebbe potuto semplicemente lasciarla irrisolta per sfruttarla nell’episodio successivo. Il twist che faceva sparire di colpo l’odio dell’uomo pipistrello verso l’uomo d’acciaio era suonato una conclusione troppo sbrigativa.
Wonder Woman ha un ritmo più dilatato, si sente meno obbligato verso le convenzioni narrative del grande schermo e ha il grande merito di prendersi molto meno sul serio. La somiglianza tra il cinema e il fumetto è sempre stata vista con un certo imbarazzo e con uno sguardo di superiorità degli sceneggiatori verso gli story-teller. La presenza alla stesura dello script di un autore come Allan Heinberg garantisce una polarità invertita rispetto all’azione di miglioramento di David Goyer. Il secondo riteneva che il fumetto dovesse adattarsi alla drammaturgia nobile del copione mentre il primo ha cercato di sistemarlo a misura del suo terreno abituale del comic-book. La messa in scena deve molto a Zack Snyder nella coreografia delle scene d’azione anche se il suo stile inconfondibile è diventato un po’ di maniera. Tuttavia, la combinazione di scene acrobatiche di combattimento, ralenti e musica torna alle origini di un’isola mitologica e dimostra che il fascino di 300 fa fatica a morire.
Il gioco incrociato delle citazioni torna inevitabilmente al punto di saldatura di Frank Miller. L’uomo che ha fuso il noir e il peplum sulla pagina illustrata e poi ha anche indicato la vita del ritorno al luogo d’origine. Il racconto della regina delle amazzoni alla giovane protagonista sulle origini della loro specie è un breve fumetto in cui i personaggi sembrano un tableau vivant di Jacques Louis David. La combinazione tra i riferimenti visivi e la compiaciuta futilità del racconto crea un interessante sfasamento in cui l’eccentricità dell’eroina si muove abilmente. Il suo arrivo nella fumosa Londra dei primi del novecento direttamente dall’arcadica isola nascosta nel Mediterraneo produce dei divertenti equivoci culturali. La sua ingenuità davanti all’orrore della Grande Guerra va di pari passo al modo in cui vede il mondo e gli uomini per la prima volta.

Wonder Woman assomiglia a Thor di Kenneth Branagh e a Captain America: The First Avenger di Joe Johnston insieme ed è singolare che furono proprio due film minori della Marvel a liberare della sua epopea. Batman e Superman hanno dovuto superare gli ostacoli della loro sedimentazione culturale e questo ha rappresentato una zavorra per il loro sviluppo in un nuovo contesto. Bruce Wayne potrebbe non liberarsi mai dal confronto con le quattro precedenti versioni che hanno percorso l’immaginario e anche Clark Kent non può sfuggire all’esigenza di renderne conto. Diana Prince ha l’unico referente di Lynda Carter ma il carattere spiccatamente camp della popolare serie televisiva l’aiuta nel compito invece di sfavorirla. Gal Gadot non avrà un talento spiccato ma riesce a trasmettere il delicato equilibrio tra il carattere epico della natura semidivina dell’eroina e la sua incongruenza con la contemporaneità. Wonder Woman gioca pericolosamente con il ridicolo involontario ma questo è un rischio che tutti i superhero-movie devono correre. Forse la DC si è rassegnata ad accettarlo e il film è conferma del piacevole esperimento di Suicide Squad. La collaborazione con la Warner deve trovare una linea dell’orizzonte in cui inserire a rotazione tutto il potenziale repertorio dei personaggi del suo cross-over. La confidenza della Marvel è ancora lontana ma finalmente il loro progetto ha iniziato a muovere i primi passi della sua emancipazione dal complesso di inferiorità verso il cinema.

 

Titolo originale: id.

Regia: Patty Jenkins

Interpreti: Gal Gadot, Chris Pine, Robin Wright, Danny Huston, David Thewlis, Connie Nielsen, Elena Anaya

Origine: USA, 2017

Distribuzione: Warner Bros.

Durata: 141′

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