XIII FESTIVAL DEL CINEMA EUROPEO – Omaggio a Ken Russell

Il piccolo ma meritorio omaggio che il festival leccese ha tributato al regista inglese ha permesso di esplorare i temi e le contraddizioni di un cinema articolato su opposti che diventano un perenne territorio di sperimentazione. Fra figure messianiche e spazi chiusi che preludono a una fuga verso nuove visioni, una carriera ben riassunta da sei pellicole che hanno abbracciato un arco di vent'anni di lavoro

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Ken RussellLo ricordava anche Terry Gilliam: Ken Russell è stato un outsider dimenticato, al punto che la sua morte lo avrà anche riportato in tv o sulle pagine dei giornali, ma non va taciuto il fatto che sia stato un avvenimento trattato con leggerezza e senza la necessaria importanza. Bene dunque l'omaggio che il Festival del Cinema Europeo ha voluto tributargli e che nella buona risposta del pubblico ha fatto anche capire come la figura di questo grande iconoclasta inglese sia ancora in grado di suscitare interesse. L'omaggio non è in realtà il primo che l'Italia tributa a Russell, c'era stato già quello di Da Sodoma a Hollywood nel 2006: il che ci permette agevolmente di saltare la fase storicistica, per concentrarci sulla scelta del festival e del curatore – il nostro Massimo Causo – che ha proposto sei pellicole in cinque giorni, abbracciando un arco temporale che va dal 1971 de I diavoli al 1991 di Whore. In mezzo il biopic La perdizione (1974), il musical Tommy (1978), l'horror Gothic (1986) e il provocatorio L'ultima Salomé (1988).

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Sono rimasti fuori titoli importanti come Donne in amore, Lisztomania o Stati di allucinazione, ma in ogni caso la selezione non è stata capricciosa o estemporanea, poiché ha permesso allo spettatore di entrare in sintonia con i temi e i corpi attoriali che spesso ritornano tra i vari titoli e trasmettono così l'idea di un tessuto artistico compatto, pur nella natura estremamente lisergica e quasi mentale delle opere. Ecco, questo è un punto sul quale converrebbe concentrare attenzione, perché è evidente come la tensione del cinema russelliano sia a uscire dal corpo, a rompere lo schema che imprigiona i personaggi in ruoli definiti, un po' come accade quando lo vediamo violare l'iconografia religiosa mostrandoci monache che si abbandonano ai piaceri della carne e la morale di un'epoca che oscilla fra un prete libertino, esorcisti fanatici e un cardinale affamato di potere. I diavoli però è anche un'opera che respira di un desiderio di spiritualità che va oltre i meri dettami religiosi e che capovolge la natura “blasfema” della passione amorosa in una forza propositiva che permette alla made superiora interpretata da Vanessa Redgrave di immaginarsi con un corpo privo delle sue deformità. Di uscire, insomma, da se stessa ascendendo a uno stadio superiore.

 

Non è un caso se ne La perdizione e in Tommy troviamo poi quel Robert Powell che sarà scelto da Zeffirelli per il suo Gesù di Nazareth: è un indizio di quanto Russell fosse affascinato dalle figure messianiche, da corpi capaci, per l'appunto, di uscire da se stessi per trasmettere un'idea di trascendenza. Come definire Tommy se non una sorta di moderna guida spirituale, i cui miracoli si misurano però sulla capacità concretissima di vincere a flipper battendo il campione della categoria? E che dire del Mahler che restituisce con la sua musica la forza della natura, ma chiede che i rumori della stessa siano azzerati per non occludere la sua creatività? C'è sempre uno scarto fra il confine più vicino e visibile, materiale, e le possibili prospettive che lo stesso finisce inevitabilmente per celare e che interessano maggiormente al regista.

 

I diavoliAnche per questo i suoi film sono ambientati in spazi ben definiti, come la Loudun de I diavoli, lo scompartimento del treno de La perdizione, la villa di Gothic, il bordello de L'ultima Salomé, ma si aprono naturalmente a diventare set privi di confine, capaci di evocare presenze fantasmatiche o mondi lontani. La deriva impressa dal percorso festivaliero ci porta così sempre più a uscire dallo schema concentrazionario del racconto al chiuso, e anche per questo ci piace il fatto che la chiusura con Whore sia al contrario dedicata a un film che si abbandona completamente all'esplorazione del mondo “di fuori”, in cui la prostituta Theresa Russell si sposta, fugge, attraversa strade, si intrufola nelle abitazioni, scompagina il bon ton di un ristorante molto chic, finisce persino per interpretare più ruoli, come da richiesta dei suoi clienti. Dalle figure più schiettamente messianiche passiamo dunque a una professione antica e materialissima, perfettamente iscritta nel corpo. Perché poi Russell è anche autore cui piace esplorare le proprie contraddizioni, e riesce a farsi amare in virtù dell'ironia che scorre sempre nei suoi titoli, in tutti. In alcuni casi in modo più sottile, in altri del tutto evidente. Anche per questo Whore rappresenta il controcampo della produzione precedente, quello che lascia uscire tutti gli umori che in passato erano celati dalla metafora o dall'artificio visionario, attraverso questa magnifica figura mutevole, filosofa, simpaticamente cinica, ma anche sofferente, e quindi sempre profondamente umana.

 

In questo senso, davvero Russell presenta dei punti di contatto con l'opera di Terry Gilliam, perché il suo cinema rarefatto e che anela a superare i confini del visibile non potrebbe mai fare a meno della dinamica che la visione innesta con il reale e con le figure che lo stesso abitano e modellano. Un cinema creato sugli uomini, ma che misura le sue grandezze su un universo al di là del nostro.

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