ZEBRA CROSSING – #biennalearchitettura2018. Il vuoto che libera lo spazio

La biennale veneziana di architettura dedica la sua attenzione a un concetto chiaro e semplice: FREESPACE. Ecco le proposte dello studio danese Dorte Mandrup e del padiglione della Gran Bretagna

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Assenza
Più acuta presenza.
Vago pensier di te
Vaghi ricordi
Turbano l’ora calma
E il dolce sole.
Dolente il petto
Ti porta,
Come una pietra
Leggera.
(di Attilio Bertolucci)

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La biennale veneziana di architettura del 2018 dedica la sua attenzione a un concetto chiaro e semplice: FREESPACE. Le curatrici irlandesi Yvonne Farrell and Shelley McNamara hanno espressamente augurato che la parola tradotta nelle molte lingue del mondo facesse riferimento ai doni architettonici che si possono scoprire nell’ambito di ogni progetto. “È nostra speranza che il termine ‘freespace’ si focalizzi sulla generosità dell’architettura”.

Generosità fa venire subito in mente uno spazio aperto infinito, e, nel contesto quasi fieristico della Biennale, abbiamo visto un’offerta veramente generosa. Moltissimo in troppo poco tempo. Sicuramente prima della fine della Biennale torneremo a RIvedere la quantità di spunti che essa vende ai propri spettatori, ma se dobbiamo pensare ora alla nostra visita, subito riappaiono in mente due chiari esempi di “spazio libero”, due esempi su cui vogliamo concentrare l’attenzione: lo studio danese Dorte Mandrup e il padiglione della Gran Bretagna.

Entrambi ragionano sul vuoto, sullo spazio, sull’apertura, sull’infinito, facendolo però in modo diametralmente opposto.
Entrambi riescono lo stesso a sfondare le pareti, visibili o invisibili, creando dei veri film mentali nelle nostre teste.

 

Lo studio danese Dorte Mandrup, che porta il nome della sua fondatrice, vince la gara per la creazione di un centro di ricerca per il clima in Groenlandia e prepara “Conditions”, un’installazione per la Biennale 2018, al fine di mostrare la sua idea di progetto. Al di là dell’ingegno, dello studio preciso, della capacità progettuale che giustamente hanno battuto i concorrenti, siamo rimasti affascinati dall’installazione in sé, perché –come sempre– va molto al di là di se stessa, per entrare nella nostra immaginazione come fosse altro, cioè un film.

Dopo il lungo corridoio dell’arsenale di Venezia –adibito a galleria espositiva (pieno pieno di interessanti intuizioni artistiche)– è “raggelante” il contrasto che sentiamo una volta entrati in quello che potrebbe benissimo essere uno studio TV.

Dorte Mandrup crea uno spazio vuoto, che si pone nel percorso di visita come fosse una stanza di passaggio, né totalmente aperta né totalmente chiusa (si entra tramite spazi stretti che presuppongono qualcosa). Uno spazio vuoto, bianco, totalmente ricreato e diviso in due tra platea e palcoscenico, luoghi solo mentali dato che tutto sta sullo stesso piano. Il pavimento, o “terreno”, cambia da normale a ricostruito, in modo da far sentire sotto i piedi la consistenza del pack innevato. E questo in modo graduale dal fondo della platea (circondata dalla parete bianca) fino verso il palco e verso ciò che abita il palco, cioè il modello della struttura architettonica del centro progettato. Le pareti bianche fanno perdere l’orientamento, ma ciò che fa veramente decollare l’immaginazione è il sapiente lavoro di creazione audio-visiva che accompagna l’installazione, e qui si entra diretti in un salto mentale verso altro.

Loop di 5 minuti infatti portano chi guarda il plastico, stando in piedi come sospeso, ad avere un’esperienza simile a quella che si potrebbe avere in una saletta di proiezione. Gradualmente poi il suono da tenue aumenta sempre più, fino a immergerci nella potentissima vibrazione di venti e correnti proprie delle latitudini groenlandesi, al punto di non riuscire più a comunicare con chi ci sta a un metro di distanza. Si resta avvolti dal suono fortissimo di turbini e raffiche che cambiano velocemente tono, come cambiano i colori che i nostri occhi vedono attorno al plastico. Dal blu al rosa al verde, sempre tenui, sempre più affascinanti, come fosse un’aurora boreale.

L’installazione rende comprensibili le parole dell’Accademia Danese riguardo la vittoria nella gara: “it is a very poetic and visionary project with an architectural unity that underpins the overall vision beautifully”. Ma il senso dato dall’installazione deborda il progetto, illuminando una zona d’ombra tra realtà e fiction in cui vive tutta la nostra esperienza di fruitori.

La massima semplicità porta al massimo dell’effetto di fiducia dello spettatore, ma tale effetto viene lo stesso continuamente minato dalla possibilità di percepirne la finzione.
Si vuole presentare il progetto ma allo stesso modo si vuole farci ragionare sulla finzione della presentazione, creando un’immersione che è fortissima proprio perché sta sul fragile crinale della sospensione di incredulità.

Quindi una situazione paradossale dentro/fuori (della narrazione, dell’immersione) che è fonte di eccezionale possibilità immaginativa di andare oltre le barriere per cogliere il freespace mentale e mondiale (portando la Groenlandia davanti a noi).

 

L’apertura mentale oltre i limiti fisici dello spazio ci porta a parlare della seconda epifania vista alla Biennale 2018.
L’installazione “Island” del padiglione della Gran Bretagna, installazione creata dalla collaborazione tra l’artista Marcus Taylor e lo studio Caruso-St John.

Per essa è stato girato un video che presentiamo qui sotto, in cui vengono fuori bene i termini della questione.

In esso si dice che l’idea dietro alla “messa in scena” del padiglione riguarda la condizione di essere isola oggi.
Ovviamente l’isola è soprattutto la Gran Bretagna (definita “a little island on the edge of Europe” che ha preso “a rather curios decision”), tuttavia poi viene detto che la decisione presa (la Brexit) immediatamente cambia il rapporto tra l’isola e ciò che si trova intorno a essa.
Una decisione quindi cambia il rapporto tra dentro e fuori.
L’installazione allora attua il cambiamento svuotando il dentro e ricollocando il proprio fuori sul tetto della propria struttura.
Il cambiamento porta una nuova percezione della realtà.
Forse essere un’isola è una buona condizione di partenza.

Se nel video si ammette con candore il significato anche giocoso di questa messa in scena, allora capiamo che porre dei ponteggi intorno al padiglione inglese vuole essere giocosamente fuorviante. Può far venire in mente l’idea che lo UK per il 2018 abbia deciso
di non presentare nulla alla Biennale e sia rimasto chiuso, mentre avvicinandosi al padiglione si scopre come esso sia aperto e totalmente vuoto, svuotato di tutto ciò che era dentro di esso.

Diventa quindi normale l’uso di espressioni come “reassessment going on”, “a kind of reconstruction”, “abbandono”, “nuovo punto di vista”. Tutte si possono legare facilmente al concetto di “freespace”, e alla dimensione di vuoto.

Svuotando il padiglione si arriva a una più acuta presenza dell’isola nello spazio. Si arriva alla percezione del suo desiderio di esserci, di essere visti, visitati, cercati. Se da fuori sembra che tutto sia stato abbandonato a seguito di una decisione curiosa, si scopre poi come il vuoto sia pieno.
Bisogna magari cambiare il punto di vista e creare una piattaforma sul tetto –accessibile via scale– da cui si può vedere la laguna di Venezia, cioè un’apertura di senso dopo averlo cercato invano dentro di sé. In questo modo si ottiene una nuova visuale.

Trovare quindi nuovi angoli per dire cose nuove senza per questo distruggere, ma ricollocando, ripensando, riscoprendo, magari svuotandosi e riempiendosi di altro.

In Island tutto è semplicissimo, non c’è bisogno di effetti. Se i danesi giustamente vogliono almeno usare suoni e luci per ridare la Groenlandia, gli inglesi radicalmente tolgono tutto per scoprire un nuovo punto di vista. Potremmo dire che si percepisce come gli inglesi abbiano capito di essere in un punto di non ritorno della propria Storia, un momento di ridefinizione di se stessi. Si percepisce la loro necessità di salto antropologico per decidere del loro futuro sia per sé che nel rapporto con gli altri. Svuotare sé per meglio guardare il mondo e farsi guardare dal mondo. I ponteggi sorreggono la riparazione di una struttura cadente, troppo vecchia per capire l’oggi.
Lo sforzo che dobbiamo fare è salire verso nuovi punti di vista dal tetto delle nostre menti.

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