ZEBRA CROSSING. La Virtual Reality a #Venezia76

Il concorso della Virtual Reality a #Venezia76 ha mostrato interessanti traiettorie che illuminano il futuro delle immagini audiovisive. Zebra Crossing è andata a vedere le opere durante la kermesse

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I raggi gamma colpirono l’isola del vecchio Lazzaretto all’alba.

Sarebbe utile la narrativa di fantascienza per parlare dell’esperienza della Virtual Reality a Venezia76. Tante cose si intrecciano e affiancano. L’acqua. L’isolamento. Il forte passato di un posto adibito un tempo ad ospedale per le quarantene e le malattie infettive. Il presente digitale. Il futuro della realtà virtuale. La fisicità della piccola isola diventa luogo mentale, dove si confonde realtà con virtualità. Seguendo le traiettorie date dalla VR quest’anno sarebbe anche facile dire che il futuro sarà immersivo. Ma il punto non è ovviamente il qui e ora, l’edizione x o y. Bisogna invece capire bene che tutti i riflettori glam del “carpet” tra pochi anni punteranno sulla VR. Capire che la razza umana dovrà tutta presto sapere nuotare sott’acqua e volare in mezzo al cielo per “interpretare” (si notino le virgolette) il cinema, o meglio, le immagini del 21° secolo.

Si deve imparare a fluttuare, come bene dice il claustrofobico “Bodyless” di Hsin-Chien Huang. Non è un discorso di intrattenimento, ma una vera lezione zen di sopravvivenza. Ampliare il proprio orizzonte percettivo per salvare la propria anima.

La VR può essere vista anche come la peste, da guardarsi in un posto ben staccato dalla vita “normale”, una peste che colpisce l’immaginario segnandolo per sempre. Immagine “poetica” che si inceppa invece quando viene dato un verdetto discutibile che va verso la pesantezza del sociale per poter dare un senso alle straordinarie visioni che manifesta. Vincono “Daughters of Chibok” (che avrebbe avuto molto più senso come semplice documentario) e il leccato “The key”. Ma è inutile guardare il dito, perché la luna è l’ondata VR infrantasi sui nostri occhi.

Si pensi al cosiddetto “theatre”, ovvero l’ala del Lazzaretto di Venezia adibita a quartier generale della proposta in VR. Un’epifania immediata. Un luogo della memoria che riaffiora appena entrati in quella sala adibita alla visione dei film in VR lineare (non in regime di interattività). Veniva subito in mente la mitica chiesa catodica di Videodrome guardando quel nucleo di spettatori seduti ognuno per i fatti propri. Ognuno con un casco in testa (ancora Videodrome), collegato con un cavo al computer centrale (a ricordare anche i primi palombari esploratori dei fondali con il tubo affiorante in superficie), e preda ognuno delle proprie visioni. Il futuro è qui. Nulla sarà come prima. Film individuali. Visioni personali. Luoghi di ritrovo in cui si guarderà il proprio film e non sarà forse più possibile emozionarsi insieme agli altri, ma sarà possibile stare dentro il film, annullando la barriera tra noi e lo schermo.

Per esempio in “Passenger” siamo un immigrato appena arrivato in Australia, e veniamo portati con un taxi alla casetta prefabbricata dove andremo a vivere. Viviamo il breve viaggio da dentro il taxi ascoltando un uccellino che fa da tassista. Non è un capolavoro ma è indicativo dell’inizio di un processo che porterà ad una nuova autorialità. Oppure in “Ghost in the Shell” siamo su una specie di carrarmato aperto e disposto su quattro gambe (con ruote) che viaggia velocissimo su autostrade distrutte dalla guerra, in fuga o in caccia di nemici da uccidere. Un ritmo straordinario e una qualità sopraffina per un’esperienza che risulta stomachevole ai più, data la nostra ancora pesante natura di esseri umani. Ma presto digitalizzeremo pure le budella e Ghost in the Shell ci apparirà perfino lento. “Whispers” è un chiaro esempio della potenzialità autoriale che la VR può avere. Le attese, le sospensioni e gli spostamenti obbligati, da prati verdi spazzati dal vento a tenebrosi boschi limitrofi, danno una vertigine propria del cinema polacco.

La strada è lunghissima. Viene in mente Bergman dire “siamo ai piedi di un gigante” mentre ci si arena sul bisogno commerciale o con la droga del riconoscimento sociale (il carpet). Ma è una strada ben direzionata. L’interazione ormai è precisa e può anche essere d’autore. Si prenda il bellissimo “Fisherman’s tale”. Ad una interattività straordinaria (forse una delle migliori) si associa anche il solo piacere di vedere il mare spazzato dal vento quando apriamo la finestra del faro.

Le rimostranze sulla natura digitale di quel mare non hanno più senso. Non sappiamo e non ci interessa più sapere cosa sia reale o virtuale. Si tratta solo di discernere immagini sensate da meno sensate. O di saper usare gli occhi, capire ciò che stiamo vedendo, o esplorare un ambiente per meglio interagire con esso (le due cose sappiamo essere legate). La fluidità è alla base, come ben vediamo in “Britannia VR”, mostrato per spingere la seconda stagione del telefilm su Sky. Qui diventiamo parte di una tribù di celti costretti a difendersi dall’invasione romana ed esploriamo il villaggio, dove la nostra gente è in preda alla trance mistica, cercando i tamburi e gli indumenti utili a trasformarci in sciamani. Se il fluido coinvolgimento può essere visto come ludico, porta invece il cervello verso quella zona di incrocio tra pensiero e azione simile al gioco dei bambini che abbiamo visto al Fuorisalone di quest’anno. Verso il gesto che re-interpreta e riscrive. Non sono allora solo videogiochi, ma nuovi modi narrativi che possono anche dirci chi siamo e dove andiamo. Si pensi a “Eleven Eleven”, eccezionale esempio di interattività che non colpisce per la storia ma per l’ambientazione. Tanto da farci dimenticare la velocissima fruizione passiva di “Ghost in the Shell” e farci muovere noi.

[youtube https://www.youtube.com/watch?v=lGk5Yy0Upwk]

Tutto ciò che ostacola la fluidità viene lasciato indietro; installazioni come “Downloaded”, “Glimpse” o “Pagan Peak” pagano molto non essere intuitive (magari anche solo a causa della trama). Oppure “A Linha” riceve un premio (il più meritato del verdetto) proprio per la semplice interattività che ci permette quasi di vivere dentro il plastico così finemente dettagliato. La storia è semplice ma non ci interessa più la storia.

Porton Down” e “Inori” sono esempi di interattività meno marcata in cui è più importante guardare. L’uso degli occhi è sempre decifrante. Anche quando immerso nei colori, come succede con “Inori”, dove si sta sospesi nel magico mondo artistico di Miwa Komatsu, nuotando o volando in fuochi, venti, fiori, flussi d’acqua. Si capisce così come avere un messaggio sia ormai totalmente pesante. Ciò che l’artista ci mostra è il messaggio.

Appare quindi “pesante” molta produzione lineare del theatre. Con pochi esempi in grado di connettersi al mezzo VR. Uno su tutti è “Only the mountain remains” di Chiang Wei 
Liang che riesce ad essere filmico e virtuale (come se il filmico non fosse un regime virtuale). Ingredienti narrativi potenti (la disperazione, la fuga, la pioggia e 
la nebbia che impediscono la visuale), uniti alla forte sensazione di intrappolamento data dall’essere chiusi in un veicolo perso per le mulattiere di montagna in Taiwan. Una storia, una linea registica, ma anche un sapiente uso della VR utili a inserirci nella trama. Stessa cosa in “Battle Hymn”, dove un gruppo di soldati israeliani aspetta di partire, e poi va in missione per arrestare un palestinese. Il quale una volta arrestato, portato al campo militare, messo in ginocchio e bendato, conquista tutta la squadra israeliana intonando un canto arabo. La VR aumenta la profondità. Grazie ad essa le due realtà antagoniste si amalgamano meglio e la storia raggiunge un livello ulteriore che fa sentire la drammaticità del conflitto.

Risultati non raggiunti invece quando non si capisce la natura del mezzo, come per il citato “Chibok”, o come per “O”, il cui problema è che non arriva da nessuna parte, in cui tutto resta freddo, distante. Oppure per il confuso “Black Bag” che si compiace della propria ermeticità. Mentre sono interessanti “Battlescar” e “VR free”. Il primo è un’installazione non interattiva in cui possiamo solo guardare le vicende di due ragazze che vogliono creare una punk band nei ‘70 a New York. L’uso dello stop motion o la definizione precisa del contesto urbano non agganciano il cuore ma aprono la possibilità di un futuro pregno di strategia visiva. Il secondo è un intelligente (seppur un po’ didascalico) esempio di apertura percettiva data ad alcuni carcerati a Torino, i quali grazie alla VR possono vedere una partita di calcio o rivedere i propri cari.

(Miwa Komatsu mentre, presso il Lazzaretto Vecchio, dipinge il suo ultimo quadro durante i giorni del festival)

Il nodo è usare il mezzo in modo intelligente, sapendo che il cammino è appena iniziato e si può inciampare, e che ci sono vie più rischiose di altre. Lavorare sovrapponendo livelli di senso è sicuramente più pericoloso di essere minimalisti. “Sublimation”, rarefacendosi, mostra divinamente la sospensione zen del gesto della straordinaria ballerina Yuko Kominami. Una volta connessi con il suo minimale equilibrio viviamo un’esperienza straordinaria.

Lontano dal minimalismo invece “Cosmos within us” (sul quale torneremo) è un vero capolavoro. In esso si tengono benissimo tutti i livelli di senso, muovendosi anche oltre oltre la VR (che è solo uno degli ingredienti usati). L’esperienza è un live cinema in cui possiamo decidere se essere il fruitore immerso nel mondo virtuale o lo spettatore reale e silenzioso che guarda avvenire il miracolo da dentro il backstage. Parliamo di miracolo perché questa è la sensazione avuta quando nel mondo virtuale la nonna ci offre un biscotto, noi allunghiamo la mano, e nel mondo reale un essere umano (invisibilmente al nostro fianco) ci dà veramente un biscotto. Il salto è potentissimo. Quasi annichilisce la potenzialità di una simile rottura dello “schermo”. Nonostante una debole storia “Cosmos” si assume un rischio vertiginoso, si lancia nel vuoto e non si sfracella. Per noi è il vero vincitore della sezione VR.

Invece “Loveseat” cade rovinosamente. Il motivo è semplice: una volta immersi nella realtà virtuale abbiamo bisogno di una sospensione dell’incredulità maggiore che nella visione in regime normale. Spesso perciò si usa una ridondante voce narrante i cui toni e volumi darebbero fastidio se ascoltati dal vivo. “Loveseat” è uno show dal vivo in cui tre attori interpretano tre personaggi indossando anche sensori utili a creare tre avatar da seguire su vari schermi sparsi per lo spazio. Ma vedere dal vivo tre attori enfatizzare ogni tono e ogni mossa per essere credibili come avatar porta ad un risultato respingente. E tutto il resto crolla di conseguenza.

Per concludere il VR è ancora materia molto delicata. Una direzione dei lavori sbagliata può far crollare tutto. Il rischio è alto ma le possibilità sono enormi. Per vedere i raggi gamma vale la pena provarci.

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