Zeta, di Cosimo Alemà

E’ possibile che la lingua del rap italiano sia finita nelle immagini di Alemà? Prima bisogna definire che lingua è il rap italiano. Allora partiamo dalle immagini, magari il linguaggio verrà da sé

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Come ha potuto il cinema italiano diventare così grande visto che nessuno, da Rossellini a Visconti, ad Antonioni a Fellini registrava il suono con le immagini? Com’è noto, è Jean-Luc Godard a porsi la domanda, nella meravigliosa puntata sul Neorealismo delle sue Histoire(s) du cinéma. Non è per via di ambizioni neorealistiche latenti nel ritratto della periferia romana disegnato da Cosimo Alemà (il quale, al contrario, cita apertamente rimandi d’Oltreoceano, anche se non proprio quelli che potrebbero venirvi in mente, per il suo apparato stilistico e formale) che tiriamo fuori JLG, ma perché è un dato di fatto che questo terzo lungometraggio del cineasta sia quello più legato al background di provenienza del suo sguardo metropolitano.
Vale a dire la scena frastagliata dell’hip-hop nostrano, che da anni ha nelle visioni nervose di Alemà la sponda fondamentale per costruire le proprie immagini attraverso l’arma irrinunciabile del videoclip: grazie ai micidiali video di Alemà, figure come Fabri Fibra, Marracash, Casino Royale hanno potuto imbastire la loro potenza di fuoco iconica. Ed è qui che diventa interessante il cruccio godardiano sulla parola nelle messinscene del cinema italiano: la lingua di Ovidio e Virgilio, Dante e Leopardi era finita nelle immagini, conclude il maestro della Nouvelle Vague. Traslando, è possibile affermare che la lingua del rap italiano sia finita nelle immagini di Alemà, dei suoi videoclip e di questo suo Zeta? E’ chiaro che si debba prima tentare di definire il rap italiano, e allora proviamo a fare il percorso inverso, partiamo dalle immagini e magari il linguaggio verrà da sé.

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Il brano che più si avvicina al tono dell’intero film è probabilmente Attica di Noyz Narcos: Alemà tenta di mantenere per tutta la vicenda lo stesso mood acido e stradaiolo del pezzo, portando alla collisione il canovaccio immutabile del genere (i dolori del giovane b-boy Izi che tradisce gli amici del quartiere per la sete di notorietà ma si caccia nei guai con i mentori sbagliati e i discografici avidi che vogliono snaturarne il sound per venderlo alle radio) con le traiettorie della storia di droga, spacciatori, coltelli, sbirri di quartiere (napoletani: Massimiliano Gallo puntualmente impagabile).
Ha dalla sua la passione di tutto il cast coinvolto, dai giovani attori ai cameo dall’olimpo hip-hop tricolore passando per la squadra d’interpreti più blasonata (Salvatore Esposito strepitoso padrino del rap capitolino, e Francesco Siciliano diavolo tentatore perfetto), e soprattutto un’attenzione maiuscola per ritmo, equilibrio dell’immagine, respiro della storia, tutti risultati scevri dal gusto per l’eccesso che albergava invece prepotente nei precedenti titoli del regista (anche se oramai salire a bordo del trenino Giardinetti che collega il centro alla suburbia di Roma non è più una novità per il cinema italiano di questa generazione…).

Eppure a conti fatti l’aspetto che manda a segno meglio di tutto il resto è proprio il livello romantico dell’intera vicenda, la giravolta sentimentale con triangoli, pianti e reinnamoramenti sorretta dal volto d’attrice dalla forte personalità di Irene Vetere.
Che insomma alla fine il linguaggio di questa scena, al netto delle battle, dei dissing, del cipiglio da bulli e del look gangsta, sia a sorpresa e del tutto italianamente quello dell’amore?

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