1968 gli Uccelli: una storia mai raccontata, di Silvio Montanaro

Paolo Ramundo, Martino Branca e Gianfranco Moltedo: sono loro gli Uccelli, studenti di architettura che danno vita al gruppo più avanguardista e libero dei movimenti studenteschi del ’68

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Solo qualche mese fa, in primavera, eravamo al museo Macro di Roma, a un incontro a margine di una proiezione speciale di 1968 gli Uccelli. Sala gremita e surriscaldata, un’atmosfera quasi surreale. Sembrava una specie di tutti contro tutti, la royal rumble dei sessantottini. C’erano i seri e i faceti, i pacifisti (chissà quanto pacificati) e i guerrafondai. Qualcuno voleva analizzare, in prospettiva storica e critica, la stagione del ’68  e dei movimenti studenteschi. Altri rivendicavano il proprio ruolo, anche in modo rabbioso, sbandierando conquiste e contestando le affermazioni degli altri. Qualche volto noto si compiaceva di un certo successo con le donne, con le femministe in platea che spernacchiavano allegramente. Mentre le animaliste, più incazzose, stigmatizzavano certe pratiche “estreme” – pare che si sgozzassero pecore, per mettere in imbarazzo i ferocissimi fautori della lotta armata in Germania… Qualcuno sosteneva che Nicolini alle assemblee fosse una palla (povero Renato!), altri inveivano contro i giovani. C’era poi chi rideva, chi interveniva in maniera folle, mentre una ragazza interrompeva la discussione con le improvvise note di un flauto. Insomma, lì per lì si poteva avere l’impressione di un’autoreferenzialità vana, di un parlarsi addosso passatista e nostalgico. Ma c’era come una leggera ubriacatura collettiva che soffiava sul caos delle posizioni. E in questa confusione, c’è da scommetterci, gli Uccelli, almeno quelli presenti, gongolavano. O meglio, cinguettavano.

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Ma chi sono questi Uccelli? Tutto parte da Paolo Ramundo detto “Capinera”, Martino Branca, semplicemente “Branca”, e Gianfranco Moltedo “Naso”. Studenti di architettura a Valle Giulia negli anni ’60, allievi di Paolo Portoghesi. Prendono il soprannome di uccelli per la loro abitudine di arrampicarsi e appollaiarsi sugli alberi, perché comunicano con incomprensibili cinguettiii, twitters ante litteram, e interrompono fischiettando le serissime assemblee studentesche. Oppongono la stramberia nonsense dei comportamenti all’ingessata visione strategica dei discorsi politici, sia di quelli istituzionali, sia di quelli ideologizzati della protesta. Il colpo di genio arriva quando, accompagnati da Portoghesi, grande conoscitore del Barocco, entrano a Sant’Ivo alla Sapienza e, con grande sorpresa del professore, “fanno il nido” sulla cupola del Borromini e la occupano pacificamente. Siamo agli inizi del ’68 ed è il primo gesto eclatante degli studenti in movimento. Di lì a poco ci saranno le occupazioni dell’università e, il 1° marzo, la fatidica battaglia di Valle Giulia, con i drammatici scontri contro le forze dell’ordine. Fine del grande sogno, direbbe Placido dal suo punto di vista di poliziotto “pasoliniano”. In ogni caso l’inizio della tensione vera e propria, con le manifestazioni e le proteste che invadono le strade.

Gli Uccelli, rispetto a tutto questo, rimangono in qualche modo a lato. In una posizione avanguardista. In ogni senso. Proprio perché scommette sulle possibilità di un avanzamento dei discorsi culturali e sull’onda lunga dell’esperienza delle avanguardie artistiche, dadasurrealiste. Per loro, la violenza non è la strada da seguire. E la rivoluzione da cercare non è quella con la R maiuscola, come direbbe Martino Branca, quella che immagina di sovvertire i rapporti di produzione sul fraintendimento della crisi capitalistica. È qualcosa che parte dagli obiettivi concreti, in apparenza marginali, che si mette in moto dalla pratica minima, quotidiana, di un gesto artistico e ludico che diventa immediatamente politico. La rivoluzione richiede innanzitutto un cambiamento della prospettiva interiore, un nuovo sguardo sulle pratiche della vita quotidiana e un riattraversamento libero degli spazi che soffocano queste pratiche, quelli musealizzati della cultura istituzionale o quelli irrigiditi e distanti dell’autorità. Occupare la cupola del Borromini o invadere i sassi di Matera significa riattivare e riappropriarsi di luoghi simbolo relegati negli archivi monumentali della storia. Presentarsi, senza invito, a casa dei grandi intellettuali e artisti vuol dire rimettere in discussione l’autorità dei “maestri di pensiero”. Disegnare con Guttuso un enorme murales sulla facciata della facoltà di architettura, oppure invaderne i cortili con 100 galline donate da Manzù: è stravolgere, con la felicità del gioco, i limiti e le funzioni degli spazi. Un progetto “immateriale” di eversione urbanistica (prima delle nuove traiettorie tracciate dell’Estate Romana). L’arte si mischia alle pecore e per un attimo si intuisce uno straordinario orizzonte estetico-bucolico che ridiscute dal basso il disegno della città e del potere. Con la loro irriverenza situazionista, Capinera, Branca e Naso coinvolgono un nutrito gruppo di ragazzi (tra cui l’ artista Roberto Federici “Diavolo”, il giornalista Paolo Liguori “Straccio”…). Ma la loro “terza via” è destinata a rimanere in secondo piano, fuori dalla narrazione, anch’essa ormai ufficiale, dei movimenti. Non è un caso che, tranne alcune eccezioni, gli Uccelli abbiano scelto di rimanere fuori dai riflettori, in una posizione isolata, magari per continuare a immaginare e praticare forme di resistenza individuali.

Ma certo, è per porre rimedio a questa dimenticanza che Silvio Montanaro, con la complicità di Gianni Ramacciotti, ripercorre le loro vicende. Riaccompagnandoli innanzitutto là dove l’avventura ha avuto inizio. Ramundo, Branca e Moltedo, insieme a Paolo Portoghesi, ritornano a Sant’Ivo alla Sapienza e da lì cominciano i ricordi e le testimonianze. Parlano i protagonisti e i personaggi secondari, affiancati dal materiale di repertorio, i filmati e, soprattutto, foto d’epoca, ritratti, titoli dei giornali etc. Montanaro e Ramaccioti hanno l’intelligenza di condurre il film con uno spirito giocoso che riprende la lezione degli Uccelli. Semmai quel che viene meno è la carica più libera e avanguardista del loro approccio, che passa in secondo piano rispetto all’obiettivo della riscostruzione e alla forma un po’ canonico del documentario. Forse è anche un segno di umiltà. Ma non è un gran problema. Quel che conta, come sempre, è la carica del gesto.

 

Regia: Silvio Montanaro

Distribuzione: Distribuzione Indipendente

Durata: 54′

Origine: Italia/2018

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
1 (3 voti)
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